Sono 460mila le piccole imprese italiane, con meno di 10 addetti e sotto i 500mila euro di fatturato, a rischio chiusura a causa dell’epidemia: sono l’11,5% del totale e nel 2021 potrebbero non esserci più. È in gioco un fatturato complessivo di 80 miliardi di euro e quasi un milione di posti di lavoro. Con il lockdown e il gorgo di restrizioni rischia di sparire un popolo di piccoli imprenditori e prosciugarsi un serbatoio occupazionale. Il Covid-19 potrebbe spazzare via il doppio delle microimprese che sono morte tra il 2008 e il 2019, come conseguenza della grande crisi. Sarebbe un doloroso addio ai piccoli imprenditori, vittime di una strage annunciata, con gravi ricadute sulla crescita: è in pericolo il meglio del motore antico del modello di sviluppo italiano.

È quanto emerge dal “2° Barometro Censis-Commercialisti sull’andamento dell’economia italiana”, realizzato dal Censis in collaborazione con il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili attraverso la ricognizione delle valutazioni di un ampio campione di 4.600 commercialisti italiani, sensori diffusi sul territorio, affidabili e autorevoli dello stato dell’economia reale. Il rapporto è stato presentato il 12 novembre nel corso di un webinar a cui hanno partecipato Francesco Maietta, responsabile dell’Area Politiche sociali del Censis; Massimo Miani, presidente del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili; Aldo Bonomi, direttore dell’AAster; Roberto Weber, presidente dell’Istituto Ixè.

Il 29% dei commercialisti rileva che più della metà delle microimprese clienti ha almeno dimezzato il proprio fatturato (il dato scende al 21,2% nel caso dei commercialisti che si occupano di imprese medio-grandi). Sono quindi 370.000 le piccole imprese che hanno subito un crollo di più della metà dei ricavi. Inoltre, il 32,5% dei commercialisti registra in più della metà della clientela una perdita di liquidità superiore al 50% nell’ultimo anno (il dato scende al 26,2% tra i commercialisti che seguono imprese di maggiori dimensioni). Sono cioè 415.000 le piccole imprese che oggi dispongono di meno della metà della liquidità di un anno fa.

Le misure pubbliche adottate durante l’emergenza ottengono una valutazione tra luci e ombre da parte dei commercialisti. Il sostegno alle imprese (moratoria sui mutui, garanzie statali sui prestiti) viene giudicato positivamente dal 45,2%, in modo negativo dal 34%. Gli aiuti al lavoro (divieto di licenziamento, ricorso alla Cassa integrazione in deroga) sono promossi dal 43,4%, bocciati dal 34,9%. Il sostegno alle famiglie (bonus babysitter, congedi parentali, Reddito di emergenza) è visto con favore dal 36,6%, mentre il 37,5% ne dà un giudizio negativo. La sospensione dei versamenti fiscali e contributivi per le imprese più penalizzate è valutata bene dal 33,3%, male dal 46,9%. Per i commercialisti lo sforzo statuale nel supportare gli operatori economici e i lavoratori durante il blocco di mercati e imprese va apprezzato, ma non basta.

Per evitare la moria di piccole imprese, secondo i commercialisti bisogna intervenire qui e ora agendo su quello che non ha funzionato. Il 79,9% dei commercialisti auspica più chiarezza nei testi normativi, il 76,7% chiede tempestività nei chiarimenti sulle prassi amministrative, il 70,7% molti meno adempimenti, il 67,2% una migliore distribuzione delle risorse pubbliche tra i beneficiari, il 61,1% una più efficace combinazione delle misure adottate, il 58,4% un taglio netto dei tempi necessari per l’effettiva erogazione degli aiuti economici, il 49,9% ritiene necessari stanziamenti economici più consistenti. Se gli strumenti di sussidio per i diversi beneficiari vengono promossi, viene però bocciata l’effettiva applicazione delle misure a causa dei detriti burocratici che rallentano tutto. Occorre snellire gli adempimenti burocratici e i passaggi formali per rendere gli interventi più efficaci: questo chiedono i commercialisti, convinti che le imprese vadano aiutate a resistere oggi, per non morire e per ripartire domani.

Per i commercialisti è in corso uno smottamento continuato dell’economia. Per il 41% bisogna essere pronti a tutto perché tutto può succedere. Il 27,6% sottolinea l’ansia pervasiva provocata dalla nuova ondata di contagi. Come in un videogioco con tante scelte possibili e altrettanti finali: appare così il destino delle imprese italiane, tra virus, restrizioni e burocrazia che non funziona. Per il 40,7% dei commercialisti ci vorrà molto tempo per uscire dalla crisi, il 26,9% ritiene che occorre adattarsi subito alle nuove condizioni o non ci sarà crescita, il 24,2% pensa che molti settori vitali siano ancora in difficoltà.

Durante il webinar il presidente il presidente nazionale dei commercialisti, Massimo Miani, ha manifestato fiducia e ottimismo sulla ripartenza dell’Italia dopo l’emergenza sanitaria, ma ciò è possibile solo se il governo ascolterà anche i corpi intermedi e il mondo produttivo. “Per snellire il sistema burocratico, le libere professioni del sistema ordinistico possono dare il proprio contributo in un grave momento di emergenza per il Paese – ha spiegato il presidente nazionale dei commercialisti –, attraverso l’attribuzione di funzioni sussidiarie, prevista dal Jobs Act del lavoro autonomo. La PA può infatti alleggerirsi di determinate funzioni per attribuirle a questo comparto”.

“C’è stato un periodo in cui si è parlato di disintermediazione e della necessità di ridurre il confronto con le categorie produttive e il mondo economico del Paese per giungere a una decisione il più rapida possibile, ma questo non ha funzionato – ha continuato Miani –. È stato utile nel primo periodo emergenziale, oggi invece è necessario un dialogo più ampio, mettere da parte l’idea di tutelare solo i propri interessi e fare interventi di sistema per il Paese. Quello che i commercialisti, che sono tra coloro che hanno pagato il costo della crisi, stanno facendo in questo momento”.

“La nostra preoccupazione è rivolta alla fine dell’emergenza – ha spiegato – quando le imprese italiane saranno ancora più indebitate. Per questo motivo, abbiamo fatto proposte al governo concentrandoci soprattutto sull’alleggerimento dei costi fissi delle aziende per mantenere l’equilibrio economico anche se le attività sono chiuse. Inoltre, affinché gli imprenditori siano stimolati a investire nelle proprie aziende abbiamo proposto, durante l’audizione sul Decreto Ristori, un superbonus della ricapitalizzazione delle imprese. Si tratta di un piano di incentivi mediante le sovvenzioni UE, che rafforza la solidità delle imprese e la loro capacità di rimborso dell’indebitamento, evitando allo Stato di dover intervenire con risorse proprie a copertura delle garanzie che verrebbero attivate dal sistema bancario nel caso in cui le imprese debitrici non fossero in grado di onorare i propri debiti”.

 

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