Da professionista tradizionale, abituato a gestire nella quotidianità adempimenti contabili e fiscali, a consulente d’impresa a tutto tondo, in grado di affiancare l’azienda anche nella difficile sfida di affrontare i mercati esteri. In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, gli operatori economici (inclusi quelli più piccoli) che non riescono a guardare oltre frontiera rischiano di soffrire più di ogni altro la congiuntura negativa. Le opportunità non mancano. Anche grazie alle recenti misure fiscali adottate dal governo con il decreto “internazionalizzazione” (dlgs n. 147/2015), che ha previsto numerose semplificazioni e strumenti di certezza per chi effettua operazioni transfrontaliere (nuove modalità di attribuzione degli utili alle stabili organizzazioni, branch exemption, piena deducibilità dei costi black list, ampliamento del ruling preventivo e possibilità di “roll-back” degli accordi, etc.).

I commercialisti hanno tutte le competenze necessarie. Solo che, talvolta, non ne sono consapevoli. Lo sa bene, invece, il Consiglio nazionale, che ha messo a punto un progetto volto proprio a valorizzare il ruolo della categoria come consulenti delle pmi nella penetrazione sui mercati esteri. L’iniziativa, organizzata in un vero e proprio road show informativo che toccherà tra aprile e novembre 10 città italiane (Bologna, Brescia, Verona, Firenze, Perugia, Caserta, Bari, Palermo, Catanzaro e Roma), è stata presentata nelle scorse settimane in una conferenza stampa presso il Senato della Repubblica.

«Questo progetto per certi versi può sembrare una scommessa», osserva Giovanni Gerardo Parente, consigliere nazionale dei commercialisti co-delegato all’attività internazionale, «ma siamo convinti che l’assistenza alle imprese intenzionate ad affacciarsi sui mercati esteri rappresenti una grande opportunità per la nostra categoria. Già oggi circa il 40% dei finanziamenti agevolati concessi dalla Simest vede coinvolti commercialisti nella fase di predisposizione e gestione delle istanze. È innegabile che questa tipologia di attività sia pressoché sconosciuta a molti colleghi abituati alle tradizionali funzioni di compliance, ma come dimostrano le missioni all’estero organizzate dal Consiglio (in Marocco e soprattutto a Dubai, alla quale hanno preso parte oltre 200 tra professionisti ed imprenditori) l’interesse è forte».

Da qui la necessità di informare – prima – e di formare – poi – i commercialisti interessati a sviluppare tale filone di business. «In passato le a attività di stampo internazionale delle precedenti consiliature si limitavano ai rapporti con gli enti omologhi (consigli e ordini esteri) oppure con organismi sovranazionali quali Iasb, Ifac, Fee», prosegue Parente. «Dal nostro punto di vista riteniamo invece che è dovere del Consiglio sviluppare ed incentivare chi, tra i 116 mila iscritti, intende formare una propria expertise sull’ambito internazionale. Non è possibile, anzi direi che è dannoso, proporre alle imprese una consulenza di questo genere senza essere estremamente preparati e specializzati sul singolo paese di interesse. Da qui l’idea del road show informativo, nel corso del quale renderemo noti i contenuti dei numerosi accordi stipulati con i soggetti istituzionali ed associativi di riferimento (Assocamerestero, Sace, Simest, IILA, ICE). Questi incontri saranno poi seguiti da corsi più mirati svolti a livello territoriale dalle Scuole di alta formazione dei singoli ordini».

Ma i commercialisti sono pronti ad un salto culturale, prima ancora che tecnico, di questo genere? «Ritengo di sì», osserva Ugo Pollice, consigliere nazionale Cndcec co-delegato all’attività internazionale, «esistono già oggi diversi studi, per lo più di dimensioni medio-grandi, che forniscono una consulenza a 360° ai propri clienti, incluse analisi di fattibilità, valutazioni aziendali, reperimento del funding necessario ad attuare il piano di sviluppo, ricerca di partner commerciali e quant’altro. È evidente che servono competenze linguistiche, cultura finanziaria e conoscenza dei mercati di sbocco. Tuttavia penso si tratti di elementi forse addirittura più favorevoli ai giovani che non ai colleghi più maturi: d’altra parte le attività tradizionali sono su un trend decrescente, in un mercato sempre più compresso dalla concorrenza di altre figure non professionali e con un generale processo di semplificazione normativa e burocratica volto a snellire i rapporti con la p.a.».

Una serie di attività che però non si pongono in alternativa a fisco e bilanci, andando invece a integrarle. «Accompagnare un’impresa nel processo di internazionalizzazione comprende in realtà compiti di vario genere», chiosa Pollice, «va da sé che talune materie richiedano un approccio specialistico, basti pensare a quello della fiscalità transfrontaliera (transfer pricing, tassazione dividendi ed interessi, patent box, etc.), come pure possono rivelarsi necessarie operazioni di riorganizzazione societaria, oppure fusioni ed acquisizioni. Non è un lavoro che si può improvvisare: l’epoca dei “tuttologi” è ormai tramontata e solo chi riesce a specializzarsi viene premiato dal mercato. Il nostro compito istituzionale è anche di favorire questi colleghi che si vogliono avvicinare ad un mondo nuovo».

Sul punto va peraltro ricordato che il CNDCEC ha presentato nel corso dell’ultimo congresso nazionale di Milano una serie di proposte al legislatore in tema di “Trade facilitation”, volte a rendere più agevoli e giuridicamente certi (anche sotto il profilo tributario) gli scambi internazionali. Senza dimenticare che la commissione internazionalizzazione del Consiglio nazionale ha promosso anche altri appuntamenti di formazione specialistica, oltre al citato road show, e ha in programma l’implementazione di un portale web «all’interno del quale verranno inseriti i riferimenti di tutti i colleghi specializzati in attività da e per l’estero, unitamente alla segnalazione di strumenti di finanziamento per supportare lo sviluppo delle attività delle pmi verso i mercati esteri», concludono i due consiglieri.

«La prospettiva futura riferita alla funzione dei commercialisti deve necessariamente contemplare uno spostamento lento ma progressivo delle proprie attività verso servizi professionali caratterizzati dalla visione manageriale e di business», conclude Filippo Maria Invitti, coordinatore della Commissione del Consiglio nazionale dei commercialisti per l’internazionalizzazione delle imprese, «in tal senso è vero che la categoria deve abbandonare la “compliance”  (fare quello che è imposto) per muoversi verso “l’advisory” (fare quello che serve)».

Scelte strategiche che non possono comunque trascurare la variabile fiscale, soprattutto per chi vuole cogliere le opportunità messe a disposizione dal dlgs n. 147/2015, adottato in attuazione della delega tributaria per favorire la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese. Un provvedimento che ha introdotto diverse semplificazioni, alcune delle quali richieste da tempo dagli stessi commercialisti, quali per esempio la facoltatività dell’interpello per la disapplicazione del regime Cfc (tassazione per trasparenza in capo all’impresa residente del reddito prodotto dalla società controllata estera), la radicale modifica al metodo di calcolo degli utili dellea stabili organizzazioni (aderendo pienamente al principio dell’entità separata raccomandato dall’Ocse), l’adeguamento della disciplina domestica ad alcune pronunce della Corte di Ggiustizia Ue (previsione del consolidato fiscale “orizzontale”, sospensione dell’exit tax in presenza di operazioni straordinarie) e la creazione di nuovi istituti improntati alla collaborazione preventiva con l’Amministrazione finanziaria, come l’interpello sui nuovi investimenti o il ruling retroattivo. Interventi salutati con favore dalla categoria, anche se, chiosa Invitti, «alcune norme del decreto 147, introdotte nel settembre 2015, sono state modificate appena tre mesi dopo con la Legge di Stabilità (Cfc, costi black list). Il problema, tutto italiano, per le PMI che desiderano internazionalizzarsi sta principalmente proprio nell’incertezza della normativa fiscale nazionale».

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