Effetto della crisi (il deterioramento dell’economia reale ha reso le imprese mediamente meno solvibili) e, allo stesso tempo, sua concausa (l’incremento dei crediti in sofferenza nei bilanci delle banche ne ha in parte ridotto la loro capacità di erogazione di credito), il tema dei cd.* NPLs* (non performing loans) ha in questi mesi invaso giornali e televisioni. Ed è una questione complessa, che non si presta a facili letture approssimate, soprattutto per gli effetti sistemici: maggiori sono le sofferenze e maggiore è l’assorbimento del patrimonio di vigilanza delle banche (in buona semplificazione, valore in base al quale si misurano sia la solidità della banca stessa che la sua capacità di erogare credito e di stare sul mercato), così che, incidentalmente, nel tempo perdono competitività e diventano più esposte ai rovesci speculativi di borsa, acuendo le paure sulla tenuta sistemica del sistema finanziario italiano in tempi di bail in (https://press-magazine.it/bail-in-e-nuove-regole-bancarie/) e quelle legate all’efficacia delle regole preposte alla tutela del risparmio.

In termini relativi, stiamo parlando di un’incidenza percentuale nominale lorda (cioè senza tener conto delle svalutazioni già effettuate e delle garanzie specifiche eventualmente acquisite) dei crediti deteriorati sul totale complessivo di crediti bancari (rectius, impieghi) pari a circa il 19/20%, contro una media UE del 7%.
In termini reali, all’ultimo dato disponibile, stiamo parlando di circa 360 miliardi di euro di crediti deteriorati, di cui 201 miliardi di euro di sofferenze lorde, che diventano 88/89 miliardi di euro al netto delle svalutazioni già portate a bilancio dalle banche italiane.
In termini andamentali, stiamo parlando quasi di un raddoppio delle esposizioni rischiose lorde, nei bilanci delle nostre banche, dal 2011 (erano circa 105 miliardi di euro, contro i 201 attuali); e di un (pericoloso) crescendo rossiniano del dato al netto delle svalutazioni (passato da meno di 15 miliardi di euro, prima dello scoppio della crisi 2007/2009, agli attuali 88/89).

Certo giocano due fattori principali nell’analisi dell’esplosione dato: l’effettivo deterioramento dell’economia reale, che ha ingenerato il peggioramento dei rating di merito creditizio ed il maggior ricorso a procedure concorsuali o stragiudiziali, da un lato; e la maggior rigidità delle regole di valutazione dei crediti indotte dalla nuova vigilanza europea. Invero, dalla lettura dei dati emergono però anche tre ulteriori elementi di riflessione: una (evidente) scarsa reattività media del sistema imprenditoriale alle condizioni economiche avverse (deficit di capacità previsionale a medio termine, dovuto in parte anche alla tipologia dimensionale delle imprese stesse); una bassa (altrettanto evidente) capacità media di analisi del merito creditizio (storicamente improntata più su garanzie accessorie che sull’effettivo valore dell’impresa) da parte delle banche; un’elevata (e pericolosa) incidenza di perdite (latenti) nei bilanci delle banche, per svalutazioni rischi crediti (ancora) incomplete.

I termini del problema sono, a ben vedere, semplici da riepilogare.
Di fatto, i crediti NPLs, se tenuti nei bilanci delle banche, determinano condizioni di rischiosità maggiore delle stesse. Se fossero deconsolidati, ne guadagnerebbe la loro solidità e, a parità di valori patrimoniali di vigilanza, la loro capacità di credito. Ma deconsolidarli (cedendoli a terzi o ad un soggetto all’uopo dedicato, la cd. bad bank) vuol dire determinare un prezzo che, se fosse troppo alto per non far emergere le svalutazioni non (ancora) fatte, sarebbe antieconomico (per un eventuale fondo specializzato in questi investimenti) o configurerebbe aiuti di Stato (se la bad bank fosse pubblica), mentre, se fosse allineato al valore effettivo del realizzo di quei crediti, genererebbe un impatto a conto economico delle (residue) perdite su crediti non ancora accantonate e ciò le esporrebbe a ulteriori pressioni speculative e/o a crisi di fiducia.

Sul problema così posto si sono prospettate diverse soluzioni negli ultimi mesi, compreso il già accennato tam tam sul ricorso ad una bad bank pubblica, come fu per Irlanda e Spagna (ma in cambio di riduzioni di autonomia delle scelte di politica economica). La qual cosa ha ovviamente determinato un’interlocuzione specifica con l’UE.

Dopo lunghe discussioni, condizionate anche dalle polemiche che hanno riguardato le responsabilità europee o italiane sulle modalità di intervento per il recente salvataggio delle quattro banche in crisi (Banca Marche, Banca Etruria e Lazio, Carife e Carichieti), il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan ed il commissario Margarethe Vestager hanno trovato l’intesa su uno schema di intervento che eviterebbe la problematica degli aiuti di Stato. Un accordo “al ribasso”, secondo alcuni, poiché di fatto non è un accordo sulla bad bank pubblica. Un “buon” accordo, secondo altri, poiché lo schema di intervento agirebbe direttamente sulla negoziabilità dei crediti in sofferenza. Insomma, l’accordo introduce i GACS, cioè un meccanismo di garanzie (pubbliche) sulla cartolarizzazione delle sofferenze bancarie, dove le garanzie saranno prezzate a condizioni (quasi) di mercato senza configurare alcun aiuto di Stato. Anche se, va detto, lo schema individuato è abbastanza complesso e non privo di potenziali dubbi sulla sua efficacia.

A seguito dell’accordo, è poi arrivato il successivo decreto del governo che ha sancito i lineamenti fondamentali dello schema di intervento e delle condizioni per ottenere la garanzia pubblica. In prima approssimazione, lo schema (per ciascuna banca o per aggregazioni fra queste) può essere così rappresentato:
(i) la banca deconsolida blocchi di crediti in sofferenza attraverso una SPV (special purpose vehicle) costituita ad hoc e con management diverso ed autonomo, che dovrà gestirne (anche ricorrendo a funzioni in outsourcing) la fase di recupero (totale o ricorrendo ad accordi transattivi);
(ii) la SPV emette dei titoli “speciali” (cd. “medium term notes”) che vengono sottoscritti sul mercato e la liquidità così raccolta trasferita alla banca originante l’operazione ad un prezzo di trasferimento “target”, diminuito dei costi di gestione della SPV, così che per questa si generino gli effetti positivi di stabilizzazione del rischio e di conseguente potenziale maggiore capacità di credito ;
(iii) ciascuna delle “notes” rappresenta un portafoglio di crediti sottostante, con le relative garanzie accessorie eventualmente esistenti, suddiviso in tranches autonome, normalmente denominate senior (quota capitale ove agirà la garanzia pubblica), mezzanine (quota potenzialmente rischiosa) e junior (quota ad elevato rischio), così che il grado di rischio del titolo sia “ponderato” e le eventuali perdite di capitale incidano prima la classe più rischiosa, poi la seconda e infine, solo per l’eventuale ulteriore perdita, la prima;
(v) vi sarà garanzia pubblica, prezzata a valori sostanziali di mercato, solo sulla parte senior ed a condizione che il titolo ottenga un rating di almeno “investing grade” (in funzione dei flussi di cassa previsionali dell’intero titolo, oltre che delle garanzie accessorie esistenti e dell’operatività del “servicer” incaricato della gestione dei recuperi), così che il soggetto investitore fruirà di una parziale garanzia sul capitale investito nelle “notes”.

Il prezzo della garanzia, che costituisce un’entrata per lo Stato a fronte del rischio implicito che questi si accolla, viene fissato per i primi tre anni nella media di cds (credit default swap, che rappresenta una sorta di valutazione del costo di assicurazione implicita del fallimento dell’emittente) similare a parità di rischio della tranche senior (inizialmente, 90 punti base), mentre dal quarto e poi dal sesto anno in avanti interverrà una clausola step up (un costo incrementativo, voluto sostanzialmente per incentivare tempistiche veloci nella fase di recupero o in quella transattiva).
Il prezzo “target” di trasferimento dei crediti sottostanti verrà invece definito di volta in volta dall’emittente in funzione delle situazioni contingenti (mix dei crediti, svalutazioni effettuate, rating ottenibile) e rappresenta, come facilmente comprensibile in funzione anche di quanto fin qui descritto, il punto centrale del buon funzionamento o meno dei GACS.

Se il meccanismo funziona (ma non è un “se” da poco, vista l’entità numerica di cui si sta parlando e la complessità gestionale conseguente) l’economia reale ne avrà parecchi benefici, sia per la (conseguente) maggiore solidità del sistema bancario che per la (probabile) maggiore propensione al credito che si dovrebbe generare.
Per il commercialista, il tema può rivelarsi interessante – ove il meccanismo funzioni – sia perché una maggiore comprensione del fenomeno può tradursi in miglioramento della relazione col proprio cliente sia per il proprio ruolo spendibile, a vario titolo, nelle procedure transattive (sia per imprese che per privati), che potrebbero incrementarsi nel numero (e nella loro facilità di realizzo) in virtù dello sviluppo dei GACS, in quanto i “servicers” (i soggetti che diverranno gestori del credito) saranno spinti a “chiudere” velocemente.
Certo vi sono anche errori da evitare. Uno è essenzialmente “sistemico”: l’eccesso di cartolarizzazioni è stato già concausa dello scoppio della crisi finanziaria nel 2007/2008. L’altro è essenzialmente “pratico”: scambiare questo schema con una facile scorciatoia, dando origine a comportamenti poco rigorosi (nella valutazione delle sofferenze e delle garanzie, nel ricorso “speculativo” a procedure transattive, nella concessione dei nuovi crediti) che minerebbero ulteriormente il nostro sistema economico. Ma affinché questo non accada, come professionisti possiamo (e dovremmo) vigilare ed essere di esempio.

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