di Luigi Mandolesi, consigliere nazionale CNDCEC delegato alla Fiscalità

Il recente approdo nelle aule parlamentari del progetto di legge delega di riforma della Giustizia tributaria, a firma dell’on.le Ermini ed altri (Atto n. 3734), ha ravvivato il dibattito su un tema centrale per il corretto dispiegarsi del rapporto Fisco-Contribuenti.
La proposta prevede non solo la soppressione delle attuali Commissioni tributarie e l’attribuzione della giurisdizione tributaria a sezioni specializzate presso il Tribunale ordinario, ma anche l’attribuzione al Consiglio Superiore della Magistratura delle funzioni attualmente svolte dal Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria.

Il fabbisogno di magistrati verrebbe colmato con l’assunzione di 750 figure attraverso due concorsi da bandire nell’arco di 12 mesi. Le risorse a tal fine necessarie verrebbero reperite dai risparmi di spesa ritraibili dalla soppressione delle Commissioni tributarie e del Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria.
Per quanto concerne la struttura dell’organo giudicante, il progetto di legge delega stabilisce che le sezioni di primo grado dovranno operare in composizione monocratica, mentre il secondo grado di giudizio si esaurisce in un reclamo allo stesso Giudice in composizione collegiale.
Per smaltire l’arretrato presso la Corte di Cassazione, è inoltre previsto che il Consiglio superiore della Magistratura possa nominare giudici speciali tra i magistrati ordinari in quiescenza da non più di due anni.
Così brevemente riassunti i tratti salienti del progetto di riforma, l’aspetto che, già ad un primo esame, lascia maggiormente perplessi è rappresentato dai fortissimi dubbi di costituzionalità che lo stesso suscita, in conseguenza dello strumento utilizzato per la soppressione della cosiddetta “quarta giurisdizione” del nostro sistema giudiziario, ossia una legge ordinaria anziché – come sarebbe dovuto – una legge costituzionale.

Dubbi vieppiù alimentati dalla prevista abolizione del grado di appello, sostituito dal reclamo allo stesso giudice di prime cure costituito però in composizione collegiale, a differenza di quanto previsto per tutte le cause civili.
Dubbi di costituzionalità a parte, e venendo al merito della proposta, l’aspetto che come Professione ci trova fortemente critici e che, ad avviso del CNDCEC, è assolutamente da scongiurare riguarda l’ipotizzata “riconduzione” delle attuali Commissioni tributarie in seno alla Giustizia civile.

La proposta, infatti, non tiene conto del fatto che le attuali Commissioni tributarie, al di là di alcune criticità, sono comunque in grado di assicurare una celerità ed una snellezza del giudizio difficilmente replicabili in seno alla giustizia civile.
Ulteriore forte motivo di perplessità deriva poi dall’inevitabile aggravio che ricadrebbe sulla giustizia ordinaria, già sull’orlo del collasso, che porterebbe ad una vera e propria paralisi della giustizia civile.
I dati forniti dal Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria evidenziano una pendenza, a fine 2015, di oltre 530.000 controversie (tra 1° e 2° grado) e sopravvenienze che, nello stesso anno, hanno superato le 256.000. Si tratta di numeri che lasciano ritenere inevitabile il rischio di dilatare oltremodo i tempi, già eccessivamente lunghi, con i quali la magistratura ordinaria fornisce risposta alle istanze di giustizia dei cittadini-contribuenti.

Giudizio negativo plasticamente espresso anche dal segretario dell’ANM, Piercamillo Davigo, che ha bocciato senza mezzi termini il progetto di legge delega, affermando che la prevista soppressione della giurisdizione speciale tributaria “farebbe schiantare la giustizia civile”. Un progetto che “non va bene”, sottolinea Davigo, e che “sarebbe suicida accettare in cambio di una promessa di più uomini e più risorse”.
La proposta risulta peraltro in assoluta controtendenza rispetto agli indirizzi di politica tributaria perseguiti negli ultimi due anni, in cui si è finalmente deciso di “cambiare passo” verso un diverso e più moderno modo di intendere il rapporto tra fisco e contribuenti.
Un rapporto che tende ora a privilegiare un approccio non più di tipo eminentemente repressivo, basato sulla diffidenza reciproca, ma di tipo preventivo che privilegia la c.d. tax compliance, ossia una collaborazione bilaterale volta ad agevolare l’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali da parte del contribuente.

Istituti quali il nuovo ravvedimento operoso e le nuove comunicazioni preventive di anomalia, permettendo una definizione preventiva delle violazioni commesse, stanno già determinando una riduzione del contenzioso tributario, il che non potrà che giovare ulteriormente alla celerità dei giudizi dinanzi alle attuali Commissioni tributarie.
La devoluzione delle controversie tributarie al giudice ordinario trascurerebbe poi le peculiarità pubblicistiche della materia tributaria, assegnando un processo di impugnazione di atti ad un giudice abituato invece a risolvere contrasti tra parti private non dotate di poteri autoritativi e con una formazione culturale del tutto diversa da quella necessaria nel processo tributario.
Per tutti i predetti motivi, preferibile appare invece rendere le attuali Commissioni sempre più indipendenti, assicurandone ancor meglio qualità, dedizione, equidistanza dalle parti anche grazie ad una maggiore professionalizzazione dell’organo giudicante.

Azzerare un’esperienza, quale quella delle attuali Commissioni tributarie, che, sia pure con qualche criticità, vive un indubbio percorso evolutivo, appare infatti assai pericoloso e, in definitiva, antieconomico.
Il punto su cui invece occorre intervenire, frutto ormai di un’opinione abbastanza condivisa, è quello di introdurre un giudice a tempo pieno, professionale, che possa ancora meglio assicurare autonomia, terzietà e indipendenza della funzione giudicante, oltre che, ovviamente, una maggiore sua produttività.
Giudice sì, dunque, professionale ed a tempo pieno, ma giudice pur sempre “speciale”, che mantenga inalterata la “pluralità” delle competenze proprie dei suoi componenti e l’autonomia dalle altre giurisdizioni.

I futuri organi giudicanti dovrebbero quindi essere composti da soggetti appartenenti al ruolo dei “Magistrati tributari”, selezionati con concorso pubblico che privilegi titoli di studio e di servizio nella materia tributaria, assicurando l’accesso al concorso anche ai laureati in economia oltre che, ovviamente, ai laureati in giurisprudenza.
Magistrati che, una volta vinto il concorso, siano a tempo pieno, sempre più professionali e specializzati, sottoposti all’obbligo di formazione continua.
In tale contesto, andrebbero in ogni caso preservate le professionalità oggi operanti nelle attuali Commissione tributarie da includere in un ruolo ad esaurimento.
Non condivisibile anche la scelta di introdurre il giudice monocratico nel primo grado di giudizio, per l’elevata complessità delle controversie tributarie – spesso indipendente dal loro valore – in cui devono trovare componimento competenze giuridiche e competenze economico-aziendalistiche.
Da respingere anche la proposta di ridurre il secondo grado di giudizio ad un reclamo al collegio, sia per i predetti profili di incostituzionalità sia per la necessità di garantire un doppio grado del giudizio di merito.
Anche la scelta di nominare giudici ausiliari tra i magistrati ordinari in quiescenza per lo smaltimento del contenzioso pendente in Cassazione va in assoluta controtendenza rispetto alla ratio ispiratrice della riforma, che è quella di assicurare il massimo della professionalità e dell’aggiornamento dei giudici.

Circa, infine, i soggetti abilitati all’assistenza in giudizio, si apprezza – questa volta – la scelta di circoscrivere ad avvocati e commercialisti la difesa tecnica nel secondo grado di giudizio. Scelta che va nella direzione di quella che il Governo ha tracciato nel recente decreto delegato di revisione del contenzioso, in cui è stata bocciata la proposta della Commissione Finanze del Senato di includere i tributaristi tra i soggetti abilitati alla difesa tecnica.

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