Tra le numerose disposizioni di favore per le imprese previste dal Decreto Legislativo delegato recante misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese (il cui iter di approvazione definitiva è, al momento di andare in stampa, alle battute finali) un ruolo di primo piano spetta al nuovo regime opzionale per l’esenzione degli utili e delle perdite delle stabili organizzazioni estere, c.d. branch exemption(1).

La norma è destinata a rivoluzionare uno dei capisaldi della nostra disciplina interna riguardante la fiscalità internazionale, poiché, in buona sostanza, per le imprese che decideranno di optare per questo nuovo regime, non assumeranno più alcun rilievo – ai fini dell’imposta sul reddito italiana – i risultati fiscali (positivi o negativi che siano) attribuibili alle proprie stabili organizzazioni situate all’estero e aventi certi requisiti.

L’opzione per il regime di branch exemption può essere esercitata da qualunque soggetto residente titolare di reddito di impresa, purché svolga la propria attività commerciale anche all’estero tramite una o più stabili organizzazioni. In considerazione degli importanti effetti che essa comporta non solo per l’irrilevanza degli utili ma anche per l’irrilevanza delle perdite delle stabili organizzazioni, l’opzione prevista dalla nuova normativa è molto stringente e, al fine di evitare possibili arbitraggi, si distingue per tre caratteristiche fondamentali: essa è anzitutto “totalitaria”, nel senso che in presenza di più stabili organizzazioni, l’impresa non può optare per l’applicazione del nuovo regime di esenzione per alcune e per il mantenimento del sistema del credito per le altre, facendo in sostanza un cherry picking delle situazioni ad essa più convenienti (2); l’opzione, altresì, deve essere “immediata”, nel senso che deve essere esercitata – per le imprese che volessero fruire della branch exemption – non appena ne sussistano le condizioni, cioè non appena esse si trovino in possesso di almeno una stabile organizzazione avente i requisiti per la branch exemption; l’opzione, infine, è anche “irrevocabile”, nel senso che, una volta esercitata, non si può più tornare al metodo del credito.

Per le stabili organizzazioni che hanno le caratteristiche richieste dalla norma (essenzialmente quelle che subiscono all’estero una tassazione “congrua”) l’opzione determina l’irrilevanza non solo degli utili ma anche delle perdite ad esse attribuibili, in base a un’applicazione “a specchio” dei criteri di determinazione dei redditi delle stabili organizzazioni italiane.

L’esenzione delle perdite comporta, per sempre, la loro inutilizzabilità in Italia, e ciò – per effetto degli stringenti limiti previsti – per tutte le stabili organizzazioni presenti e future.
La combinazione dei criteri di restrittivi dell’opzione (che è totalitaria, immediata e irrevocabile) con la scelta di rendere inutilizzabili tour court *le perdite potrebbe determinare, nella generalità dei casi, un disincentivo fortissimo all’utilizzo del nuovo istituto.
Difatti, mentre i grandi gruppi industriali o finanziari con decine di stabili organizzazioni nel mondo potrebbero comunque trovare conveniente l’esercizio dell’opzione (considerato che in linea di principio i benefici dovrebbero a rigore di logica risultare mediamente superiori, almeno nel lungo termine, ai malefici), le società più piccole o quelle in fase di *start up
– che invero avrebbero maggiore bisogno di essere incentivate ad avviare attività all’estero – potrebbero essere dissuase dall’avvalersi del nuovo regime per il timore di perdere la “scommessa” con il Fisco, facendo previsioni sbagliate e ritrovandosi con una perdita estera non deducibile in Italia (e, in ipotesi, nemmeno all’estero!).

Per contemperare le esigenze delle imprese con quelle del Fisco sarebbe stato preferibile prevedere comunque, a prescindere dall’esercizio o meno dell’opzione per la branch exemption, il riconoscimento delle perdite delle stabili organizzazioni estere a riduzione del reddito complessivo dell’impresa residente. Dopodiché avrebbe potuto prevedersi la non applicazione dell’esenzione (con conseguente tassazione degli utili) sino a consumazione delle perdite medio tempore dedotte in Italia (3). Il regime avrebbe potuto completarsi con disposizioni di recapturedelle perdite eventualmente non ancora riassorbite al momento della chiusura della stabile organizzazione, se e nella misura in cui le medesime perdite possano essere ancora utilizzate all’estero.

Alternativamente, avrebbe potuto quantomeno prevedersi il riconoscimento delle perdite della stabile organizzazione cc.dd. “finali”, cioè quelle che per effetto della chiusura della stabile non potranno essere utilizzate in altro modo all’estero, come avviene ad esempio in Olanda. In tale maniera, non solo si sarebbe attuato un regime maggiormente in linea con gli orientamenti della giurisprudenza comunitaria (che di regola tende ad ammettere la deduzione delle perdite “finali” delle entità estere alle stesse condizioni valevoli per le perdite delle entità residenti) ma si sarebbe anche ottemperato appieno al precetto costituzionale della tassazione in base alla capacità contributiva dei soggetti d’imposta: non va dimenticato, infatti, che le perdite realizzate da una stabile organizzazione estera sono in tutto e per tutto perdite della casa madre residente, la quale, peraltro, risponde per le stesse col proprio capitale (a differenza delle perdite delle subsidiary estere – o italiane – che se da un lato, in presenza dei requisiti pex, non sono riconosciute in capo al socio italiano, sono comunque tutelate soltanto col capitale della stessa subsidiary).

Si potrebbe obiettare che il regime italiano, a differenza di quello olandese, è opzionale. Tuttavia tale obiezione non coglie nel segno, considerato che l’opzione prevista dalla normativa italiana è, come visto, totalitaria e irrevocabile, di talché una volta che essa è esercitata non sarà mai più possibile applicare il metodo del credito (con riconoscimento delle perdite), nemmeno per le stabili organizzazioni che verranno costituite decenni dopo l’esercizio dell’opzione (sminuendosi così, nel tempo, fino a sparire completamente, la differenza tra un regime opzionale e un regime obbligatorio).

Peraltro, non è nemmeno chiaro se queste restrizioni siano compatibili con lo scopo a cui dovrebbe mirare il regime di branch exemption che, a mio avviso, dovrebbe essere principalmente quello di dirimere il rischio di doppia tassazione e non quello di procurare alle imprese il rischio di introdurre possibili situazioni di doppia non deduzione (rectius, tassazione di redditi inesistenti).

(1) Cfr. l’articolo 14 del decreto che introduce nel T.U.I.R. il nuovo art. 168-ter, rubricato “Esenzione degli utili e delle perdite delle stabili organizzazioni di imprese residenti”.
(2) L’esercizio dell’opzione in discorso comporta degli importanti effetti anche per le stabili organizzazioni che – non subendo una imposizione “congrua” all’estero – non rispettano le condizioni previste dalla nuova normativa. I redditi e le perdite di tali stabili organizzazioni non potranno essere assoggettati al regime della branch exemption, ma anche per tali casi è previsto comunque un nuovo regime, del tutto peculiare (che esula dagli scopi del presente intervento).

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