Il concetto di governance dell’impresa (corporate governance) è questione spinosa, in cui si accavallano diverse definizioni in dottrina. Si deve fare slalom fra i modelli di amministrazione e controllo del codice (tradizionale, duale, monistico) – essi stessi a cavallo tra prescrizioni giuridiche e razionalità economica – ed i sistemi di gestione integrata del rischio (integrated risk management). Eppure è parte stessa del “modo” di fare impresa, anche quando a volte lo è inconsapevolmente, poiché tocca, inscindibilmente fra loro, tanto temi (apparentemente) astratti e complessi (strategici, economici, giuridici), quanto temi eminentemente pratici (ruoli, deleghe, controlli). E, come tale, è indicatore dell’approccio al rischio insito in quell’impresa specifica.

E’ tema che mette l’impresa (ed il suo commercialista, sia quando ricopre la veste di consulente che quando riveste incarichi di controllo o di organismo di vigilanza) di fronte a scelte organizzative a rilevanza esterna (forme di amministrazione e controllo, responsabilità legale degli Enti ex D.Lgs. 231) ed interna (processi e procedure operative), dovendo così confrontarsi sempre con alcuni “bivi logici”: a livello interpretativo, se sia un concetto prevalentemente legale o anche, se non più ancora, economico; a livello organizzativo, se applicare modelli predefiniti o dipendenti dalle singole strategie di business; finanche a livello “culturale”, ovvero se siano temi “solo” per la grande impresa (che ne può sopportare più facilmente i costi connessi) o “anche” per la piccola impresa (che spesso ne teme l’impatto di irrigidimento procedurale).

Spesso, infatti, si osserva come la cultura del “governo del rischio” (inteso come evoluzione applicativa dei modelli codicistici di amministrazione), avendo come basi la centralità del “processo” di delega nonché la separazione “funzionale” tra proprietà e gestione e tra gestione e controlli, cresca di pari passo con la crescita dimensionale e/o con l’apertura al mercato dei capitali (fondi, quotazione), che agiscono come spinta al miglioramento dei processi di governance stessa.
Eppure, nonostante gli ostacoli della complessità, dei costi e della (presunta) rigidità, una “buona” governance è ingrediente essenziale di un’impresa sana nel tempo. Ciò perché, all’interno di procedure adeguate e dei meccanismi di checks and balances, aiuta a rendere le scelte d’impresa funzionali, razionali e consapevoli. Funzionali, agli obiettivi (deliberati e) perseguiti con l’attività aziendale; razionali, cioè “spiegabili” ai terzi (strategia, informativa di bilancio e finanziaria, rapporti con gli investitori e le banche); consapevoli, in quanto condivise dalle varie funzioni aziendali e costruite attorno a processi e procedure gestionali non dipendenti (solo) dall’intuito del singolo imprenditore e/o manager chiave. A condizione però che si passi dal mero formalismo, giuridico od organizzativo “sulla carta”, alla sostanza economica, in termini di ritorni di efficienza operativa e di prevenzione dei rischi (economici, finanziari, legali, fiscali).

Ma per ottenere ciò occorre uno sforzo qualitativo, oserei dire “culturale”, nel considerare tutti (imprenditori, istituzioni finanziarie, professionisti e legislatore) come centrali: la cultura d’impresa, la funzione del controllo esterno sindacale (quale elemento di valore prospettico per l’azienda stessa), l’apertura del capitale (per supportare percorsi di crescita dimensionale), l’arricchimento dato da membri indipendenti nei cda e dall’implementazione dei modelli organizzativi e dell’organismo di vigilanza, le opportunità di aggregazione tra imprese (come strategia competitiva), l’apertura ai mercati internazionali (come orizzonte “necessario” del fare impresa) e, non ultima, una buona formazione (del personale e dei professionisti). Elementi che, invece, ancor oggi sono troppo spesso visti con diffidenza se non addirittura (erroneamente) come un “costo inutile”.

Le sfide, in questo contesto, sono molteplici, alcune derivanti da modifiche normative recenti ed altre rese necessarie dalle mutate condizioni economiche a seguito del perdurare della crisi, che impone oggi un adeguamento “anche” nella struttura societaria e nel suo funzionamento. Sfide che però passano tutte dalle competenze della Professione del Commercialista: dall’implementazione dei nuovi principi di comportamento del collegio sindacale alla sfida delle procedure di revisione legale; dalle questioni di puro assetto giuridico-societario alla scelta del modello di amministrazione più idoneo; dalla sfida dell’essere all’altezza del ruolo di amministratore indipendente (ancor più importante in relazione alla normativa sulle quote di genere) a quello di essere attore nei vari ruoli legati alla normativa sulla responsabilità legale delle imprese (resa ancor più stringente dalle recenti evoluzioni date anche dal nuovo reato di auto riciclaggio e dalla correlazione con i reati tributari); dal portare i soci, spesso nuclei familiari, verso l’apertura del capitale a terzi al saper consigliare al meglio le scelte legate ai processi di aggregazione fra imprese.
Sfide da (saper) cogliere, per accompagnare il sistema economico verso una (auspicata) ripresa sostenibile.

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