Il coordinamento tra la disciplina antiriciclaggio e la procedura di Voluntary disclosure ha costituito durante il 2015 una delle maggiori fonti di preoccupazione per i professionisti incaricati.
Le norme di carattere primario e secondario non hanno certo contribuito a chiarire l’interrelazione fra le due disposizioni, resa ancor più complessa dalla diversità tra la definizione di riciclaggio rilevante ai fini della segnalazione e quella contenuta nel codice penale.
Il MEF in diverse occasioni ha ricordato che sono dovuti tutti gli obblighi di prevenzione di cui al Dlgs. 231/2007, tra i quali la segnalazione di operazioni sospette, ma ha ritenuto di dare una lettura riduttiva all’esonero di cui all’art. 12, affermando che si applica solo alla consulenza collegata a procedimenti giudiziari. Il ruolo del professionista, a parere di chi scrive, incontra entrambe le esimenti indicate al c. 2 dell’art. 12: in una prima fase si “esamina la posizione giuridica“; in una seconda fase il professionista svolge l’attività per evitare un procedimento, il contenzioso tributario, ed in taluni casi anche quello penale.
Al di là dell’esimente, vi sono casi in cui l’obbligo di SOS appare scontato, come può essere la provvista da emissione di fatture per operazioni inesistenti o ipotesi delittuose come l’appropriazione indebita, la corruzione, la bancarotta, le false comunicazioni sociali; ancor più nel caso di sospetto di utilizzo della procedura per finalità diverse da quelle previste dalla legge, ovvero di sproporzione oggettiva e soggettiva nell’operazione.
E’ stata evidenziata l’inutilità di segnalazioni per fattispecie in cui l’eventuale riciclaggio (in senso penalistico) nonché il reato fiscale sono coperti dalla procedura di VD e quindi non esiste più un bene giuridico da proteggere. Ma è stato ribadito che tale circostanza non esime dall’obbligo di SOS.
Si è talvolta dimenticato che la segnalazione ex art. 41 è un adempimento a carattere valutativo, sulla base del sospetto di compimento o tentativo di compimento di operazioni di “riciclaggio”, secondo la definizione di cui all’art. 2 del Dlgs. 231/2007, che riguarda “beni” provenienti da reato, a differenza del “riciclaggio” ex artt. 648 bis e ter c.p. dove rilevano “denaro, beni e altre utilità”.
La giurisprudenza penale considera il risparmio d’imposta derivante da dichiarazione infedele tra le “altre utilità”, categoria concettuale diversa da quella dei “beni”; quindi, valorizzando la definizione testuale, non sussiste riciclaggio ex Dlgs. 231/2007 quando le attività oggetto di VD siano proventi da risparmio d’imposta ottenuto con dichiarazione infedele (1), la quale può aver prodotto “altre utilità”, ma non “beni”.(2)
Il particolare rigore delle sanzioni previste ha fatto preferire talvolta letture più cautelative e, forse, l’espansione della categoria delle operazioni sospette.
Nel corso di questa calda estate è emerso un altro problema.
La dottrina (3) ha richiamato l’attenzione sugli artt. 50, 51 e 58 del Dlgs. 231/2007 che prevedono rispettivamente:
il divieto di utilizzo in qualunque forma di conti in forma anonima o con intestazione fittizia aperti in Stati esteri;
l’obbligo di comunicazione delle infrazioni al MEF;
la sanzione amministrativa per chi viola il divieto (dal 10% al 40%) (art. 58 c. 6) e per chi viola l’obbligo di comunicazione (dal 3% al 30%) (art. 58 c. 7).
La situazione appariva paradossale: le sanzioni amministrative della normativa antiriciclaggio diventavano un ostacolo per i contribuenti intenzionati a regolarizzare le loro posizioni.
Altra dottrina (4) ha ricordato che sarebbe lesivo dei diritti del soggetto che aderisce alla VD essere coperto dalle sanzioni penali e non da quelle amministrative, per il principio della tassatività delle fattispecie sanzionatorie.
Altra dottrina ancora (5) ha evidenziato che quasi tutti i Paesi, collaborativi o non sullo scambio di informazioni, applicano i principi Gafi antiriciclaggio, per cui è impossibile l’apertura di un conto senza l’indicazione del beneficial owner (in Svizzera il formulario A). La fattispecie sanzionata sarebbe riferibile solo a chi intesta il conto ad un’altra persona, ovvero non indica il reale titolare effettivo.
D’altro canto l’obbligo di monitoraggio fiscale si riferisce agli intestatari ed a coloro che sono titolari effettivi dell’investimento; da qui il fatto che la sanzione sul monitoraggio dovrebbe prevalere su quella dell’art. 50, in quanto specifica.
La situazione sembrava normalizzata, ma il legislatore, con il Dl. 153/2015, ha inserito nell’art. 5 quinquies “Effetti della procedura di collaborazione volontaria” del Dl. 167/90 la lettera b – bis), sancendo che si applicano tutte le disposizioni di cui al Dlgs. 231/2007 “ad eccezione di quanto previsto dall’art. 58 c. 6”, ovvero le sanzioni per l’infrazione al divieto di utilizzo di conti anonimi con intestazione fittizia.
Inserimento nato dal timore che il rischio di evidenziare con la VD un “utilizzo” sanzionabile potesse frenare l’accesso alla procedura?
La dottrina più rigorosa ne ha dedotto che non è venuto meno l’obbligo di comunicazione dell’infrazione al MEF (per la contestazione e l’irrogazione delle sanzioni e per la comunicazione alla Guardia di Finanza che ne dà comunicazione all’Agenzia delle Entrate) e quindi siamo caduti in un nuovo baratro di dubbi.
Proviamo a fare un ragionamento. Per verificare se è dovuto l’adempimento occorre considerare quanto detto sopra per l’individuazione del titolare effettivo ed inoltre che “ai fini antiriciclaggio, non dovrebbero configurarsi fattispecie di intestazione fittizia di un conto estero intestato a un trust (o a una società offshore, etc.) di cui la banca “conosca” la persona fisica che ne possiede il patrimonio o il controllo: e ciò neppure nell’ipotesi in cui il predetto veicolo sia da considerare ad altro titolo – ad esempio ai fini e per gli effetti di cui all’art. 37, comma 3, del DPR n. 600 del 1973 – come fittiziamente interposto”(6).
Trattando contemporaneamente due temi (l’applicabilità dei principi antiriciclaggio e la non punibilità dell’utilizzo dei conti anonimi), la nuova lettera b – bis) non brilla certo per chiarezza; essa è stata correttamente inserita al 1° comma dell’art. 5 quinquies, relativo a condotte di cui è esclusa la punibilità nei confronti di chi presta la collaborazione volontaria.
Resta in vigore l’art. 51, che prevede la comunicazione al MEF finalizzata alla contestazione della violazione ed all’irrogazione delle sanzioni amministrative.
Certo, saremmo stati tutti più tranquilli se vi fosse stato un riferimento esplicito all’art. 51; ma come possiamo pensare che il legislatore chieda di comunicare una infrazione che egli stesso ha dichiarato non punibile, per la quale è quindi venuto meno l’interesse dello Stato da tutelare?

(1) G.P. Chieppa, Voluntary disclosure e obbligo di segnalazione delle operazioni sospette, in Corriere Tributario, 13/2015 p. 986.
(2) La stessa UIF nel comunicare lo specifico codice di segnalazione ha ribadito che “Resta fermo che tali segnalazioni – che non costituiscono una nuova tipologia di comunicazione né una nuova classificazione di sospetto, essendo inquadrabili come una sotto-classificazione della più generale categoria del riciclaggio – dovranno essere trasmesse solo ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 41 del Dlgs. 231/2007”. Il riferimento appare chiaro.
(3) E. Fisicaro – A. Galimberti, il Sole 24 ore, 6 agosto 2015
(4) R. Razzante – S. Loconte, Italia Oggi, 13 agosto 2015
(5) V.Vallefuoco, Il sole 24 ore, 14 agosto 2015.
(6) Assonime, circolare 29 dell’8/10/2015

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