Di oltre 1.700 aziende sequestrate dallo stato alla mafia, in un anno, ne sono sopravvissute solo 60. La ragione? A parte le difficoltà oggettive a supportare i cosiddetti costi della legalità, troppo lunghi sono i tempi tra il momento della confisca e quello del sequestro del bene, tempi, come dichiarò mesi fa il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti, che potrebbero essere ridotti attraverso l’interazione tra amministratori giudiziari, autorità ed agenzia nazionale. Una catena che ha molti anelli deboli. A cominciare dallo scarso riconoscimento e dalla mancata valorizzazione e tutela dell’amministratore, figura chiave nel sistema della gestione dei beni sottratti alla criminalità organizzata.
Ma non per Governo e Parlamento, a quanto sembra. E basta osservare gli ultimi provvedimenti in materia: dalla norma “ammazza amministratori”, approvata recentemente dalla Camera, che reinserisce – dopo che la commissione giustizia lo aveva eliminato – l’illogico limite quantitativo agli incarichi per questi professionisti; al decreto compensi, ribassati secondo un criterio illegittimo, che equipara il lavoro degli amministratori giudiziari a quello dei curatori fallimentari. E poi ancora l’inesistenza di un albo specifico previsto da tempo ma mai concretamente attuato.
Un mix di norme che portano ad un solo risultato: la fuga da questo tipo di attività.
E certo non si può dire che il lavoro manchi. Secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Giustizia ad inizio 2015, sono oltre 52 mila solo i beni confiscati, tra aziende ed immobili, per un totale di 139 mila beni in banca dati, di cui solo 89 mila negli ultimi cinque anni. Un patrimonio enorme a cui oltretutto vanno aggiunte le migliaia di beni sequestrati e confiscati nell’ambito di procedimenti penali non censiti, che potrebbe far emergere un dato complessivo di beni pari a circa il doppio, intorno a 280 mila unità. Il punto è che, del totale dei beni a cui vengono posti i sigilli, in media il 30% arriva a confisca.

La riforma del codice antimafia
Uno degli ultimi colpi assestati a questo professionista è il recente ddl. di riforma del codice antimafia (Dlgs. 159/2011) approvato dalla Camera ed ora in seconda lettura al Senato. Un’occasione di restyling persa secondo il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili che non tiene conto dei suggerimenti tecnici proposti proprio dalla categoria.
E’ assurda, oltre che inapplicabile – secondo il Consiglio nazionale – la norma che prevede l’affidamento dell’incarico di amministratore giudiziario di aziende “di straordinario interesse socio-economico” ai dipendenti della società Invitalia, così come il passaggio che stabilisce un tetto massimo di tre incarichi per i professionisti chiamati a gestire i beni sequestrati e confiscati.
Considerato infatti l’elevato tecnicismo della materia, per i commercialisti la figura dell’amministratore giudiziario deve essere necessariamente riservata ad un professionista qualificato (commercialista o avvocato) e non può coincidere con un dipendente pubblico oppure un soggetto di una società partecipata, seppure competente, anche per i possibili conflitti di interesse che potrebbero in concreto configurarsi. L’azienda che gestisce durante la fase giudiziaria “per conto di chi spetta”, infatti, potrebbe, poi, essere confiscata e quindi acquisita dallo Stato e cioè dallo stesso Ministero che detiene le quote di partecipazione dell’ente da cui dipende.
A questo bisogna aggiungere, ha dichiarato Maria Luisa Campise, consigliere nazionale delegato alle funzioni giudiziarie, “che la gestione di un’impresa sequestrata, oltre agli inevitabili profili di pericolosità che l’incarico implica, richiede un impegno costante e continuo che va oltre le mansioni e gli orari lavorativi di un dipendente pubblico o para-pubblico”.
“Per questo motivo il Consiglio nazionale, pur ritenendo utile creare una “rete” di rapporti tra l’amministratore giudiziario e gli enti istituzionali preposti, aveva considerato opportuno proporre che il dipendente della società Invitalia, una volta dimostrato di essere in possesso dei medesimi requisiti richiesti ai liberi professionisti per l’iscrizione all’Albo degli Amministratori giudiziari, potesse eventualmente assumere soltanto l’incarico di coadiutore dell’amministratore giudiziario, incarico questo di minore impegno e portata”.
Rammarico anche per la norma (art. 13 del testo approvato dalla Camera) che, in materia di incarichi di amministratore giudiziario di aziende, pone un divieto di cumulo “comunque non superiori a tre” incarichi.
Tale disposizione, se licenziata definitivamente, sarebbe, secondo il Consiglio nazionale “ab origine viziata da illegittimità costituzionale, atteso che, soltanto in capo ai professionisti abilitati (avvocati e commercialisti) che svolgono l’attività di amministratore giudiziario, verrebbe illogicamente introdotto, per la gestione delle aziende sequestrate, un divieto di cumulo degli incarichi. “Avremmo preferito, così come proposto nel corso delle tante audizioni effettuate”, ha aggiunto Campise, “un criterio qualitativo e non quantitativo nelle dimensioni per non creare discrezionalità e disparità di trattamenti”.
L’auspicio è che, ora, il Senato possa recepire le proposte formulate dai tecnici della materia onde licenziare un testo coerente ed equilibrato che riconosca il duro lavoro portato avanti dai magistrati e dagli amministratori giudiziari.

Il decreto compensi
Quello dei compensi dei professionisti che affiancano i magistrati gestendo le aziende durante le fasi del procedimento giudiziario è poi un altro punto critico del sistema, ed il decreto in materia – pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 10 novembre – non fa che aggravare la situazione.
Il punto è che il governo nell’aver predisposto il provvedimento lo ha fatto assumendo come modello di riferimento la disciplina in materia di determinazione del compenso che spetta al curatore fallimentare, partendo dall’erroneo presupposto di una minore complessità degli adempimenti richiesti agli amministratori giudiziari.
Per questo il Cn, dopo averne chiesto più volte una sostanziale modifica anche attraverso un documento inviato al Ministero della Giustizia, ha deciso di ricorrere davanti al Tar del Lazio.
Per i commercialisti la richiesta era innanzitutto di cambiare radicalmente la logica nella determinazione dei compensi e, piuttosto che adottarne il riferimento utilizzato per i curatori fallimentari, prendere come modello la tabella per la determinazione dei parametri dei compensi per le professioni, regolarmente stabiliti dal D.m. 140/2012, naturalmente adattato alle specificità della disciplina in materia di gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alle consorterie criminali. In alternativa, utilizzare i contributi annuali forfetizzati in relazione alla singola attività svolta dall’amministratore giudiziario. Ma nulla di tutto questo. Il Dpr contiene tariffe irrisorie partendo dall’erroneo presupposto – ha spiegato ancora Campise – “di una minore complessità degli adempimenti richiesti agli amministratori giudiziari rispetto a quelli svolti dal curatore fallimentare nel corso della procedura concorsuale. Il Dpr non tiene conto della estrema complessità di questa attività e dei rischi ad essa connessi. Una sottovalutazione dalla quale discendono compensi, a nostro modo di vedere, troppo bassi e che ci ha indotti a ricorrere al Tar”.

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