Nello scenario economico dell’Italia c’è un tema cruciale per il futuro del nostro paese, troppo spesso sottovalutato. Si tratta del passaggio generazionale di azienda. Il fenomeno coinvolge ogni anno almeno 80 mila società. In un sistema imprenditoriale costituito per oltre il 90% da PMI, le aziende familiari rappresentano circa l’85% del totale. Secondo i dati pubblicati da AIDAF, l’associazione italiana delle aziende familiari, la platea è costituita da circa 784 mila imprese, che pesano in termini di occupazione per circa il 70%.
Numeri in linea con quelli registrati nelle principali economie europee quali Francia (80%), Germania (90%), Spagna (83%) e Regno Unito (80%), ma con una sostanziale differenza: mentre in Francia e UK a guidare le aziende vi sono manager esterni rispettivamente nel 74% e nel 90% del totale, in Italia tale percentuale crolla al 34%. In due casi su tre, quindi, le aziende familiari italiane sono gestite dal nucleo proprietario. E poiché la maggior parte di tali imprese sono state fondate durante il boom economico degli anni ’60 e ’70, l’età dei padri-imprenditori rende inevitabile il momento del passaggio generazionale. Fase, quest’ultima, che definire delicata risulta perfino riduttivo, come testimoniano le statistiche: secondo le stime, oltre il 50% delle aziende familiari non supera il primo passaggio, meno del 15% arriva alla terza generazione ed appena il 5% alla quarta. Perché?
Contrasti familiari, mancata pianificazione in tempo utile, resistenze psicologiche della vecchia guardia a passare la mano e/o incapacità dei successori di gestire situazioni in qualche modo “imposte” rappresentano spesso i motivi dell’insuccesso. La globalizzazione, la rivoluzione digitale, l’affermarsi di nuovi modelli di organizzazione aziendale e di leadership, senza dimenticare la crisi negli ultimi anni, hanno messo a nudo tutti i punti deboli del “family business”.
Rischi che possono però essere calcolati, maneggiati e quanto meno attenuati attraverso una consulenza integrata di alto livello, nella quale i commercialisti possono giocare un ruolo decisivo. Il passaggio generazionale di impresa è, infatti, una materia influenzata da numerose variabili (societaria, fiscale, civilistica, psicologica, etc.), ma che proprio la multidisciplinarietà intrinseca della professione può aiutare ad affrontare.
«Benché le competenze dei commercialisti si siano sempre più ampliate nel corso degli ultimi anni, quelle che ruotano attorno al tema del passaggio generazionale hanno una spiccata complessità e non si fermano all’area meramente tecnica», osserva Nancy Saturnino, commercialista eletta nel nuovo Consiglio dell’ODCEC di Milano; «Il carico fiscale dell’operazione deve essere attentamente valutato e questo, certamente, richiede solide competenze in ambito tributario. In genere si esaminano strutture societarie complesse e quindi è necessario porre attenzione anche alla governance del gruppo, presidio a tutela degli equilibri societari attuali e futuri, quando l’imprenditore vorrà o dovrà passare la mano. Ma tutto questo non è sufficiente. Bisogna andare oltre ed avere anche una buona capacità di ascolto e saper cogliere attentamente le esigenze e le aspettative dell’imprenditore e dei suoi successori, per poter poi valutare soluzioni che tengano conto non solo delle variabili fiscali ma anche delle attese e delle attitudini dei singoli membri della famiglia».
Le soluzioni giuridiche e tributarie sono molteplici, ma molte volte il passo più difficile è di natura “personale”. «Spesso l’imprenditore tende a percepirsi come insostituibile e con difficoltà è disposto a riconoscere nelle generazioni che gli dovrebbero succedere le giuste competenze, il talento e le qualità che, invece, riconosce a se stesso», prosegue Saturnino. «Inoltre se si tiene conto che oggi le famiglie italiane sono sempre più frammentate e che non tutti i membri della famiglia hanno o vogliono avere lo stesso grado di coinvolgimento nell’impresa di famiglia, il quadro si complica ulteriormente. Non bisogna dimenticare, poi, che tutti i membri della famiglia sono portatori di interessi patrimoniali che in un modo o nell’altro vanno salvaguardati».
A riconoscerlo è stata anche la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, che lo scorso 31 ottobre ha pubblicato un documento di ricerca dedicato all’inquadramento tributario e civilistico del patto di famiglia, uno dei possibili istituti attivabili a tali finalità. Lo studio è volto a fornire alla categoria una bussola su uno strumento introdotto dieci anni fa (legge n. 55/2006), ma il cui utilizzo presenta ancora alcune zone d’ombra, specie sotto il profilo fiscale. «Prima dell’introduzione del patto di famiglia, le ipotesi possibili che venivano suggerite all’imprenditore ancora in vita che volesse preservare la sua ‘creatura’ erano quelle della donazione d’azienda, della vendita dell’azienda e, al limite, del trust», osserva la Fondazione; «questi istituti si erano però appalesati non idonei al raggiungimento dello scopo in quanto risultava difficile rispettare il diritto alle quote di legittima degli eredi ed in quanto non veniva fissato il valore del bene donato al momento della stipula dell’atto. Tali contratti, pertanto, erano (e sono) esposti in particolare all’azione di riduzione». Eppure, ancora prima di arrivare ad impostare l’operazione sul piano giuridico e tributario, emerge con forza la necessità di non disperdere il valore creato nel tempo. Una regola aurea di cui si è preoccupato anche il legislatore. «L’esigenza di tutelare il bene azienda, nonché l’attività imprenditoriale, in quanto bene sociale e non solo individuale, è più volte emersa nel corso della esistenza dell’ordinamento, soprattutto nei casi di passaggi generazionali delle piccole e medie imprese, normalmente a gestione familiare, in quanto in detti frangenti, spesso, si assiste ad una disgregazione del patrimonio», precisa la FNC.
L’esperienza professionale e l’esperienza maturata dal commercialista in questa area è quindi idonea a garantire un’assistenza personale e multidisciplinare. Sia per quanto riguarda il passaggio generazionale dell’azienda vera e propria sia quello dei patrimoni dell’imprenditore, in una realtà economica sempre più articolata ed in presenza di portatori di interessi quanto mai diversificata. Motivo per cui, esattamente come avviene nelle imprese a gestione familiare, in molti casi è opportuno vedere fino a dove la consulenza del singolo professionista può arrivare e dove invece è necessario integrarla con altre figure più specializzate.
«La complessità è tale che richiede l’apporto di competenze specifiche ed ulteriori rispetto a quelle più tradizionalmente identificate in materia di bilancio e dichiarazioni», chiosa Saturnino, «in conclusione gestire correttamente il processo del passaggio generazionale ed attuare un’efficace politica di protezione del patrimonio è una sfida che il commercialista può certamente raccogliere, purché non pretenda di coprire da solo tutti i diversi ambiti coinvolti e sappia lavorare in team, mettendo in campo competenze diversificate, in grado di soddisfare il cliente e di interpretare correttamente il rapporto tra impresa e famiglia».
Se realizzata al meglio, la successione d’azienda può consentire di dare continuità alle imprese senza comprometterne la funzionalità e la capacità di creare valore. Ciò può avvenire solo dove il turnover sia pianificato nei minimi dettagli in maniera programmata e organizzata, senza lasciare nulla al caso sotto i diversi punti di vista (civilistico, ereditario, fiscale, finanziario, patrimoniale). Viceversa, le prospettive della società, indipendentemente dalla gloria del marchio e dai traguardi raggiunti in passato, possono essere a tinte fosche, con il rischio che essa sia acquisita da altri soggetti (magari anche di un altro paese, come accaduto negli ultimi anni a diverse eccellenze del made in Italy) o, ancora peggio, vada soggetta al fallimento nell’arco di pochi anni.
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