Con la costituzione dei primi organismi di composizione della crisi, si dibatte circa il ruolo e le responsabilità da questi assunti.
La questione risulta piuttosto complessa perché la legge istitutiva non fornisce la qualificazione dell’organismo di composizione della crisi, limitandosi ad effettuare un mero rinvio al decreto del Ministero della Giustizia n. 202/2014. Quest’ultimo individua l’organismo di composizione nell’articolazione interna di uno degli enti pubblici individuati dallo stesso regolamento ed abilitati alla costituzione degli organismi (comuni, province, città metropolitane, regioni, istituzioni universitarie pubbliche, camere di commercio, segretariati sociali ed ordini professionali dei commercialisti, degli avvocati e dei notai).
Non va sottaciuta la circostanza che l’art. 15, comma 4, della stessa legge istitutiva prevede che dalla costituzione e dal funzionamento degli organismi non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Spostando la prospettiva sul lato delle funzioni, non appare risolutiva l’elencazione contenuta nella legge n. 3, dal momento che ricadono nell’ambito dell’attività dell’organismo tipici ruoli svolti: nella mediazione, dal mediatore (per quanto concerne l’attività svolta dall’Organismo e finalizzata precipuamente al raggiungimento dell’accordo con il creditore); dall’attestatore, nell’ambito delle procedure di crisi relativamente alla stesura del piano di risanamento ed alla attestazione della veridicità dei dati aziendali ed al prognostico di fattibilità; ovvero dal curatore, nella liquidazione del patrimonio. Coordinando le disposizioni, si potrebbe sostenere che si tratti di enti aventi natura ibrida, ricadenti sia nella sfera del diritto pubblico, sia nella sfera attinente al diritto privato. In effetti, la prima verrebbe a prevalere allorché si enfatizzasse la previsione di cui all’art. 2 del decreto ministeriale n. 202/2014 e la funzione sociale che, probabilmente, il legislatore ha voluto riconoscere agli organismi in un’epoca di grave crisi economica e sociale; la seconda sarebbe preponderante nella qualificazione giuridica, allorché si ponesse mente alla tipologia dell’incarico conferito dal debitore sovraindebitato e concluso con l’organismo alla luce delle previsioni contenute nell’art. 10 del decreto n. 202/2014 (che riecheggiano quelle dettate per il conferimento del mandato professionale di cui all’art.9, comma 3, d.l. n. 1/2012).
L’inquadramento della problematica nei termini predetti potrebbe trovare conforto nelle previsioni dedicate al regime di responsabilità che, facendo leva sul generale principio della personalità della prestazione svolta dal gestore, affiancano a quella dell’organismo la responsabilità del gestore che ha effettivamente svolto l’incarico [secondo il generale canone di correttezza enunciato nell’art. 1176, secondo comma, c.c. (art. 12, decreto n. 202/2014)]. Se qualche perplessità esiste con riferimento alla individuazione della natura e della qualificazione giuridica dell’organismo, altrettanto non può dirsi circa la qualificazione del gestore che, salvo le eccezioni previste nell’art. 4 decreto n. 202/2014, è un professionista iscritto all’Albo che svolge le proprie funzioni per l’organismo e per il richiedente (debitore) in base ad un rapporto di diritto privato. E tale precisazione assume importanza anche quando, muovendo dalla normativa, si tenta di ricostruire l’aspetto della responsabilità penale del gestore.
Sotto il profilo penale, la responsabilità del gestore è declinata nell’art. 16 della legge n. 3/2012. Sembrerebbe potersi escludere, in via preliminare, la ricorrenza di possibili imputazioni per reati di falso del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, dal momento che, in occasione dello svolgimento delle funzioni tipizzate nel summenzionato art. 15 della legge n. 3/2015, l’organismo ed il gestore non esercitano pubbliche funzioni secondo le regole del diritto pubblico, né esplicitano attività riconducibili alle modalità di formazione o manifestazione della volontà della pubblica amministrazione.
Quanto detto non può essere disatteso da mera interpretazione letterale dell’art. 15, quando annovera tra i professionisti i notai (che sono pubblici ufficiali) od i professionisti in possesso dei requisiti di cui all’art. 28 l.f., richiesti per l’assunzione delle curatele fallimentari. Tale ultimo rinvio, che, si ricorda, doveva avere valenza meramente transitoria, non è effettuato per estendere la qualifica di pubblico ufficiale ai gestori, bensì per indicare precipui requisiti di professionalità ed indipendenza utili ai fini dello svolgimento delle funzioni.
Sembrerebbe da escludersi anche la possibilità di applicare l’art. 359 c.p. relativo al reato dell’incaricato di un servizio di pubblica necessità, stante la riconduzione dell’attività del gestore al tradizionale schema dell’opera professionale. Del resto nella legge e nel decreto ministeriale non si rinvengono tali qualificazioni rispetto al gestore. Sembrerebbe allora che il legislatore, nel summenzionato art. 16, abbia articolato un’autonoma ipotesi di reato proprio.
Si tratterebbe, più precisamente, di un’ipotesi di falsità documentale consistente nell’aver reso false attestazioni in ordine alla veridicità dei dati contenuti nella proposta o nei documenti ad essa allegati, in ordine alla fattibilità del piano ovvero alle relazioni particolareggiate che l’organismo, per tramite del gestore, è tenuto ad allegare ai sensi dell’art. 9, comma 3 – bis, legge n. 3/2012, ovvero alla relazione sui consensi ai sensi dell’art. 12, comma 1, ovvero anche in ordine alla relazione particolareggiata che l’organismo deve redigere in caso di domanda presentata per la liquidazione del patrimonio del debitore ai sensi dell’art. 14 – ter, comma 3, legge n. 3/2012.
E’ di tutta evidenza, inoltre, che la formulazione della fattispecie riecheggia quella dell’art. 236 – bis l.f., ancorché il contenuto e gli ambiti siano limitati e, molto opportunamente, centrati sull’attività e non sull’omissione.
La pena edittale può consistere nella reclusione da uno a tre anni e nella multa da 1.000 a 50.000 euro e, dunque, in modo decisamente inferiore a quelle previste per reati ascrivibili a pubblici ufficiali o ad incaricati di pubblico servizio.
Alla stessa pena soggiace il gestore (od il professionista che abbia svolto le funzioni nel regime transitorio) che cagiona un danno ai creditori omettendo o rifiutando senza giustificato motivo un atto del suo ufficio “privato”, come anche la Corte di Cassazione nella Relazione dell’Ufficio del massimario III, 3/2012 mette in evidenza.
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