Nell’ambito delle sentenze confluite nel primo Massimario nazionale della giurisprudenza tributaria di merito un tema che è risultato centrale, che ricorrentemente è stato posto all’attenzione dei Giudici, è quello dell’obbligatorietà o meno del contraddittorio endoprocedimentale e delle conseguenze che la violazione di tale obbligo comporta sull’atto impositivo successivamente emanato.
Sul punto, la Corte di cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 24823 del 9 dicembre 2015, ha affermato, come è noto, che: “Differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto”.
Sulla base di tale premessa, la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto:
– in materia di tributi “non armonizzati”, l’obbligo di contraddittorio preventivo “sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi per le quali … risulti specificamente sancito”;
– per i tributi “armonizzati” (quali l’IVA e le imposte doganali), “avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.
Ebbene, è stato da più parti rilevato che la conclusione cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità non sempre si dimostra logica e razionale.
Innanzitutto, è stato rilevato che, così interpretando l’art. 12, comma 7, dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/2000), si riconoscono garanzie soltanto nei confronti dei contribuenti sottoposti a verifiche e accessi presso i loro locali, lasciando sprovvisti delle stesse tutele quei contribuenti che, per una scelta dell’Amministrazione finanziaria, sono invece sottoposti a controllo “a tavolino” presso l’Ufficio tributario.
E ciò non può trovare giustificazione nell’argomentazione per cui nei controlli “a tavolino” è lo stesso contribuente a fornire i documenti sui quali il Fisco esercita l’azione accertatrice, instaurandosi così una sorta di contraddittorio preventivo, mentre nelle verifiche in azienda sono gli operatori dell’Amministrazione finanziaria che acquisiscono direttamente i documenti, senza alcun confronto con il contribuente: può accadere, infatti, che l’Ufficio emetta un accertamento “a tavolino” sulla base di documenti prodotti esclusivamente da terzi e quindi nella totale inconsapevolezza da parte del contribuente sia dei documenti a disposizione dell’Ufficio sia dell’attività accertativa a suo carico. In simili fattispecie, è evidente che il contribuente, in assenza di contraddittorio preventivo, nulla potrà osservare prima dell’emissione dell’atto impositivo.
Una parte della giurisprudenza tributaria di merito ha ritenuto pertanto di dar voce a simili doglianze. In particolare, la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, con la sentenza n. 5 del 14 gennaio 2016, ha affermato che le garanzie previste dall’art. 12, comma 7, dello Statuto non necessariamente vanno circoscritte agli accessi presso la sede del contribuente, poiché la locuzione “accessi, ispezioni e verifiche” può riguardare tutti i tipi di controllo e dunque anche quelli cosiddetti “a tavolino”.
Anzi, proprio in questi ultimi, ad avviso del Collegio emiliano, sussiste ancor di più l’esigenza di un contraddittorio preventivo: durante le verifiche presso la sede, infatti, vi è una interlocuzione costante tra verificatore e verificato, attraverso la redazione dei verbali giornalieri nei quali il contribuente può far rilevare le proprie osservazioni e anche attraverso la consegna del verbale conclusivo, che riepiloga i rilievi contestati.
Al contrario, nei controlli c.d. “a tavolino” il contribuente potrebbe ricevere un accertamento in “risposta” a una mera produzione documentale o anche di un questionario, senza aver potuto conoscere la posizione dell’ufficio e prospettare le proprie ragioni.
La conclusione delle Sezioni Unite della Cassazione è stata sottoposta al vaglio critico della giurisprudenza tributaria di merito anche sotto un diverso profilo.
La Cassazione trascura infatti la circostanza che, operativamente, la separazione tra tributi armonizzati e non armonizzati non sempre è così netta. Perché questo significa riconoscere che vi sono tributi e procedure, in qualche modo, figli di un Dio minore, dove non trovano cittadinanza le medesime tutele e garanzie previste invece per altri tributi ed altre procedure.
Capita sovente, invero, che il procedimento adottato dall’Ufficio sia il medesimo, come unico sia l’atto con cui vengono avanzate pretese per i tributi non armonizzati (imposte sui redditi e IRAP) e per i tributi armonizzati (IVA).
Può accadere, ad esempio, che un’attività istruttoria dell’Ufficio conduca al recupero di maggiori ricavi ai fini delle imposte sui redditi e, sulla base dei medesimi presupposti e delle medesime prove, alla contestuale e automatica determinazione di un maggior imponibile anche ai fini dell’IVA.
Ebbene, ad avviso della Suprema Corte, il contraddittorio dovrebbe essere attivato, a pena di nullità, soltanto per questi ultimi rilievi (IVA) e non pure per quelli relativi alle imposte sui redditi. Altrimenti detto, in assenza del contraddittorio preventivo, l’avviso di accertamento sarebbe illegittimo solo limitatamente alle contestazioni in materia di IVA e non pure per quelle relative alle imposte sui redditi.
E ciò nonostante che i rilievi e le contestazioni possano essere, come già ricordato, i medesimi e il recupero della maggiore IVA rappresenti una mera automatica conseguenza del recupero delle maggiori imposte sul reddito.
Una conclusione che, come è agevole constatare, risulta difficilmente giustificabile sul piano della razionalità e, lasciatemi dire, anche del buon senso.
Tali considerazioni hanno ispirato un orientamento più recente della giurisprudenza tributaria di merito che si sta affermando sempre più, con il quale sono delineati con maggior dettaglio i limiti entro cui il principio di diritto sancito dalla citata sentenza a Sezioni Unite della Corte di cassazione si renda applicabile.
Nel Massimario nazionale che oggi stiamo qui celebrando, relativo al periodo che va dal II semestre 2017 al I semestre 2018, è riportata una massima tratta dalla sentenza della Commissione tributaria regionale per il Piemonte (sez. II) n. 1535 del 2 novembre 2017 in cui i Giudici di merito hanno avuto modo di affermare che: “Qualora un avviso di accertamento sia stato emesso, sulla base dei medesimi presupposti, sia ai fini dell’IVA che delle imposte dirette, la violazione del contraddittorio ai fini del tributo armonizzato rileva anche in relazione alle altre imposte. Pertanto, se l’avviso di accertamento concerne anche l’IVA, il contraddittorio deve sempre essere espletato (anche nei cc.dd. accertamenti a tavolino) e, se ciò non avviene e il contribuente assolve l’onere di enunciare, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato attivato, l’avviso di accertamento è nullo ab origine nella sua interezza”.
Oltre alla citata Commissione tributaria regionale per il Piemonte si sono pronunciate in tal senso la CTR per la Lombardia n. 4504/2017 e n. 3509/2017 e la CTR per l’Emila Romagna n. 1932/2017.
Nel medesimo senso si è espressa altresì la Commissione tributaria provinciale di Siracusa con la sentenza n. 3431/3/2017.
I Giudici siciliani, pur avendo preso atto del decisum delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, hanno infatti stabilito che tale indirizzo non induce necessariamente ad escludere che “nel caso di accertamento CONTESTUALE sia di maggiore Iva che di imposte dirette, come è avvenuto nel caso concreto, l’obbligo del contraddittorio preventivo sia implicito e si estenda per tutti i tipi di imposta, non potendosi parcellizzare la declaratoria di illegittimità limitatamente all’Iva, con la conseguenza che la censura avanzata nel presente giudizio va sicuramente accolta anche per le altre imposte”.
In pratica, secondo quest’ultimo più recente orientamento della giurisprudenza tributaria di merito, l’obbligo di contraddittorio preventivo per i tributi armonizzati in presenza di accertamento unitario e contestuale anche di tributi non armonizzati comporta, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto per tutti i tributi, armonizzati e non.
Orientamento che, come già ricordato, si va sempre più diffondendo nella giurisprudenza di merito che, a migliore specificazione del principio di diritto enunciato dalla sentenza n. 24823/2015 delle Sezioni unite della Cassazione, attribuisce decisiva rilevanza, ai fini dell’obbligo del contraddittorio preventivo, al dovere di ogni amministrazione procedente di acquisire ogni e ulteriore dato o elemento rispetto a quelli in suo possesso prima di aprire una fase di accertamento, estendendo il predetto obbligo ad ogni tipo di verifica, anche “a tavolino”, e superando la dicotomia tra i diversi comparti impositivi allorché, come spesso accade, si tratti di rilievi valevoli sia ai fini dell’IVA che ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP.
D’altra parte, anche l’affermazione delle Sezioni Unite secondo cui l’esistenza di norme nell’ordinamento nazionale che esplicitamente prevedono, per i tributi non armonizzati, l’obbligo di contraddittorio preventivo (come, ad esempio, l’art. 10 della L. n. 146/1998 per gli accertamenti da studi di settore e l’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 per gli accertamenti sintetici) impedirebbe di ritenere sussistente detto obbligo per i casi in cui lo stesso non sia espressamente previsto dal legislatore nazionale risulta contraddetta dalle ben note sentenze delle stesse Sezioni Unite della Suprema Corte (sent. n. 30055, n. 30056 e n. 30057 del 2 dicembre 2008) secondo cui, pur in presenza di una norma, quale il previgente art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, che tassativamente elencava le operazioni e i comportamenti che potevano essere considerati elusivi/abusivi, ha ritenuto, senza alcun indugio, direttamente applicabile nel nostro ordinamento anche nel settore dei tributi non armonizzati, un altro principio “immanente” enunciato dal diritto unionale con riferimento solo ai tributi armonizzati, ossia quello antielusivo o del divieto di abuso del diritto, al fine di contrastare i comportamenti elusivi/abusivi allora non espressamente previsti dal previgente art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.
Vale la pena inoltre qui ricordare che anche la Corte costituzionale si è pronunciata sul principio del contraddittorio con la sentenza n. 132/2015 in cui, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale del citato art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 (la disposizione antielusiva ora abrogata dal D.Lgs n. 128/2015), i Giudici delle leggi hanno precisato che la mancanza dell’espressa previsione del contraddittorio anticipato in alcune norme non è di ostacolo all’applicazione del principio generale di partecipazione al procedimento.
Sulla specifica problematica, segnalo che anche il legislatore si sta muovendo per superare l’attuale impasse.
Tra le misure più importanti contenute nella proposta di legge Ruocco (ed altri) sulle semplificazioni fiscali che dovrebbe approdare al voto dell’aula della Camera dei deputati giusto domani mattina troviamo anche l’introduzione dell’obbligo generalizzato del contraddittorio preventivo.
La norma in via di approvazione non risulta tuttavia ancora del tutto soddisfacente in quanto sebbene faccia venir meno l’attuale differenza di trattamento tra tributi armonizzati e non armonizzati, estendendo anche a quest’ultimo settore impositivo l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, esclude espressamente da quest’ultimo obbligo gli avvisi di accertamento parziale.
Ora, tenuto conto dell’ormai quasi generalizzata possibilità per l’Ufficio di emettere avvisi di accertamento di tipo parziale e la notevole frequenza con cui questi ultimi sono notificati ai contribuenti in alternativa agli accertamenti di tipo ordinario, è evidente che la normativa in via di introduzione rischia di non cogliere nel segno e di lasciare ancora troppi margini di discrezionalità agli Uffici accertatori.
Peraltro, così facendo, si rischierebbe addirittura un arretramento della tutela del contribuente rispetto alla situazione attuale, sol che si consideri che per gli avvisi di accertamento basati sugli studi di settore e sul redditometro, che sono accertamenti tipicamente di tipo parziale, la legge attualmente prevede l’obbligo di contraddittorio preventivo.
La limitazione, come precisato da autorevoli esponenti della maggioranza (Gusmeroli), è dovuta a esigenze di gettito, i quali hanno anche assicurato che l’introduzione del principio può costituire comunque lo spunto per interventi di maggior respiro nel prossimo futuro.
Si tratta, ad avviso del Consiglio nazionale dei Commercialisti, di un punto nodale del rapporto Fisco-Contribuente che va risolto riconoscendo in ogni caso al contribuente il “diritto di esporre le proprie ragioni”, che, a sua volta, è espressione del “diritto ad una buona amministrazione”, giacché esprime “il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento che gli rechi pregiudizio”.
Continueremo quindi a batterci per il definitivo e pieno riconoscimento di tale diritto, anche nel caso di emissione di avvisi di accertamento parziale.
A tal fine, i Commercialisti continueranno a mettere a disposizione le proprie competenze e la propria professionalità in tutte le sedi istituzionali in cui sono e saranno coinvolti, con l’auspicio che possano infine prevalere le superiori ragioni di giustizia sottese al riconoscimento dell’obbligo in oggetto rispetto a non meglio precisate esigenze di gettito, sicuramente meno giustificabili in fattispecie di questo tipo.
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