Sommersi nelle settimane passate da commenti e analisi, spesso propedeutiche a questa o quella tesi di politica economica, le domande di base, soprattutto per i non addetti ai lavori restano: «cos’è il QE»? E, soprattutto «a cosa serve»? E, anche «per il lavoro del commercialista, interessa»?
Apparentemente, infatti, ci sono alcuni argomenti che parrebbero non toccare direttamente la professione. Invece, come nel caso della finanza e delle regole che la presidiano, la toccano eccome: per il diretto impatto che hanno sulle scelte strutturali a supporto degli investimenti aziendali, sulla valutazione del rischio dato dalle variazioni di cambi e tassi, o sull’accesso al credito, solo per citare alcuni effetti.

Da un lato, agendo tramite un incremento straordinario della domanda di titoli sui mercati finanziari, i corsi (i prezzi quotidiani, per intendersi) tenderanno a salire mentre i tassi (intesi come rendimento effettivo a scadenza per un nuovo acquirente) a scendere, riverberando tale effetto anche sui tassi richiesti per nuove emissioni di debito di pari natura. Inoltre, l’immissione di liquidità e il calo dei tassi conseguente fa scendere artificiosamente il rapporto di cambio euro/dollaro. Dall’altro, vi è l’aspettativa d’innescare un effetto “sostituzione” poiché, dato che a cedere quei titoli saranno soprattutto banche ed enti finanziari, questi avranno più liquidità e, ritrovandosi nel contempo con rendimenti medi attesi sui mercati obbligazionari più bassi e quindi meno convenienti, avranno più interesse a destinare tale liquidità a nuovi crediti all’economia reale, fungendo così da volano per il rilancio dell’economia (e, indirettamente, dei corsi azionari in borsa).

Vi sono però alcuni dubbi concreti. Per una banca, a fronte di una riduzione dei rendimenti medi attesi dal comparto finanziario, spostarsi sul credito alle pmi comporta un’assunzione di rischio diversa e, spesso, maggiore. Questo soprattutto in Italia: per l’impatto dato alla perdurante crisi sui bilanci aziendali, i tassi di ingresso in sofferenza dei prestiti sono infatti pressoché triplicati negli ultimi tre anni. La situazione è paradossale, per via delle debolezze sistemiche del sistema imprenditoriale: sottodimensionato per fatturato visto che il 95% delle partite Iva non supera i due milioni di fatturato e solo lo 0,08% supera i cinquanta milioni (fonte Istat), mediamente sottocapitalizzato e sostanzialmente sovraesposto verso forme di indebitamento a breve termine (fonte Banca d’Italia) e quindi a revoca. Così, da un lato, avremmo urgente necessità di superare il credit crunch causato dalla crisi e, dall’altro, non è detto che la citata “sostituzione” avvenga in automatico e nemmeno che non abbia un effetto controproducente sulla stabilità delle banche (e quindi del risparmio).

In questo quadro, la figura del commercialista può assumere un ruolo centrale, prescindendo dalla dimensione o dallo stato di salute delle aziende clienti. Infatti, l’accesso al credito e le scelte finanziarie di un’azienda (adeguatezza della capitalizzazione o delle forme tecniche di indebitamento), la capacità di mostrare le proprie peculiarità imprenditoriali tramite un adeguato business plan, la valutazione stessa della continuità aziendale e delle soluzioni per risolvere le crisi d’impresa, necessitano di un supporto professionale valido e preparato che conosca tanto la realtà aziendale (numerica e gestionale) quanto la cornice legislativa (giuridica e fiscale) entro la quale potersi muovere. È proprio tornando, così, ad occuparsi professionalmente anche di materie diverse da quelle strettamente fiscali e amministrative, quali soggetti qualificati per tutte le scelte d’impresa e degli stakeholders, che i commercialisti potranno recuperare la credibilità della professione verso quegli interlocutori (banche e Istituzioni finanziari, Pa, giudici, opinione pubblica, politica) che oggi, avendo in parte una percezione falsata della realtà, a volte non viene loro riconosciuta.

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