Sulla recente normativa inerente l’apposizione del visto di conformità da parte del commercialista, ad esempio sul 730 precompilato, è importante ribattere sull’adozione di un’inutile anomalia giuridica: oltre alla sanzione stricto sensu, spetterebbe al commercialista versare imposte ed interessi propri del cliente-contribuente. In audizione presso il Senato della Repubblica, il Consiglio Nazionale dei Commercialisti ha già fatto notare che, in questo modo, il rapporto tributario “traslerebbe” dal contribuente al professionista, con buona pace del principio costituzionale della capacità contributiva che recita, lo ricordiamo, all’art. 53, comma primo: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”.

Lo stesso Statuto Albertino del 1848, anteriore di un secolo alla costituzione repubblicana, sanciva l’obbligo dei sudditi del Regno di contribuire ai carichi dello Stato in proporzione dei propri averi. “Della propria capacità contributiva”, “dei propri averi”, non sicuramente di quelli altrui… Il principio di “sostituzione” del debitore d’imposta appare in questo modo una vera e propria aberrazione giuridica; né si comprende quale sia la ratio insita in detto provvedimento o il bene giuridico da tutelare, se non esclusivamente generare gettito e garantirsi una più ampia platea di “obbligati tributari”, il tutto però in forte odore di incostituzionalità. Per tacere del rischio di inassicurabilità di sanzioni dirette ai professionisti in forza del principio di afflittività delle stesse, seppur l’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni in un proprio parere abbia precisato la natura risarcitoria e non sanzionatoria delle somme dovute. In uno stato di diritto è il bene giuridico e non la necessità di cassa il principio ispiratore delle norme.

Del resto non si possono non richiamare i principi di ragionevolezza e di proporzionalità. Il principio di ragionevolezza impone che, nel caso concreto, la Pubblica Amministrazione utilizzi un provvedimento proporzionato alle finalità da conseguire, adeguatamente e concretamente motivato, attento all’interesse primario, agli interessi con cui questo può venire in conflitto e ad ogni circostanza di fatto; l’Amministrazione è pertanto tenuta ad adottare soluzioni idonee, adeguate e necessarie, che esigano il minor sacrificio possibile per le posizioni degli attori coinvolti. Quanto al principio di proporzionalità, la giurisprudenza amministrativa ha sancito che detto principio, di origine comunitaria, non consente all’Amministrazione di adoperare atti restrittivi della sfera giuridica privata in modo non proporzionato all’interesse pubblico.

Appare inevitabilmente chiaro che un apparato sanzionatorio di tal fatta assuma i connotati di un’anomalia giuridica vera e propria: colpire in modo non proporzionato ed irragionevole, col rischio di un cospicuo grave danno economico, un professionista che agisce da tempo come cinghia di trasmissione tra il pubblico ed il privato, è innaturale, inutile, anti-giuridico, iniquo. Non si tratta qui di una sterile polemica di categoria, ma di porre osservazioni fondate esclusivamente sul diritto.

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