Di riforme fiscali in Italia non si è certo mai sentita la mancanza. Da quella epocale di inizio anni settanta, ne sono state messe in cantiere, in questi ultimi quarant’anni, almeno quattro o cinque. Il problema non è infatti mai stato (o quasi) quello di approvare una più o meno taumaturgica legge delega, con incontrovertibili principi di semplificazione, razionalizzazione e efficientamento del sistema fiscale, bensì quello di rendere detti principi effettivi e verificabili sul campo, con impatti diretti sulle azioni e i comportamenti quotidiani di tutti i soggetti coinvolti (uffici impositori, imprese, professionisti e contribuenti in genere).
Ne è la riprova l’ultima legge delega, la n. 23 del 2014, che a più di un anno dalla sua entrata in vigore ha visto definitivamente approvati dal Parlamento soltanto una manciata di decreti delegati tra cui quello in materia di semplificazioni fiscali del dicembre scorso che ha visto la luce grazie anche (ma sarebbe meglio dire, soprattutto) al suo “pezzo forte”, ossia al modello 730 precompilato, sul quale si sono concentrate, come è noto, gran parte delle aspettative di riforma del governo. Un passo in avanti lo si è avuto il 21 aprile scorso con l’approvazione da parte dell’esecutivo di ulteriori tre decreti attuativi, ora all’esame delle competenti commissioni parlamentari per il prescritto parere, sulla certezza del diritto (con la disciplina dell’abuso del diritto), sulla fatturazione elettronica tra privati e sulle misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese.
Al di là di questi pur importanti provvedimenti, si è per il resto trattato di fare i conti con un incessante alternarsi di norme, collocate in ogni dove, ispirate più alle contingenti esigenze di gettito che non al bisogno più duraturo di razionalizzazione del sistema.
Ne è derivato un asfissiante ginepraio normativo che soffoca qualsiasi iniziativa o progetto che possa contribuire al rilancio economico del Paese.
Il modo disorganico di legiferare in materia tributaria è stato recentemente censurato anche dalla Corte dei Conti in un’indagine, pubblicata lo scorso novembre, sugli effetti dei controlli fiscali sulla tax compliance dei contribuenti. I giudici contabili, nell’analizzare l’efficacia della normativa fiscale degli ultimi quarant’anni, l’hanno definita «contraddittoria e mal coordinata, adottata sulla spinta di emergenze contingenti e quasi mai inquadrata in una strategia di lungo periodo di contrasto all’evasione fiscale».
La legge delega attualmente in fase di attuazione è sicuramente apprezzabile, in quanto si propone di intervenire su alcune problematiche molto sentite dagli operatori, quali la codificazione del divieto di abuso del diritto, la revisione del sistema sanzionatorio, la disciplina del raddoppio dei termini di accertamento, la manutenzione della fiscalità internazionale e altro.
Si tratta, come da più parti sottolineato, di una “manutenzione straordinaria” che tenta di risolvere alcuni casi pratici, non di un testo organico per ridisegnare dalle fondamenta il sistema tributario. Il che, paradossalmente, potrebbe tramutarsi in un punto di forza della delega, rispetto alle “incompiute” delle precedenti esperienze. Per questo appare ancora più incomprensibile il ritardo sin qui accumulato.
La recente proroga a fine giugno del termine per l’attuazione della delega (ulteriormente prorogato a fine settembre per gli schemi dei decreti legislativi trasmessi alle Camere per i prescritti pareri non prima di metà aprile) non può essere considerata un incidente di percorso.
È la naturale conseguenza dell’assenza di una strategia di fondo e della confusione dei ruoli tra Agenzia delle Entrate e ministero dell’Economia e delle Finanze che ha caratterizzato la legislazione fiscale degli ultimi quindici anni. È fresca la memoria di provvedimenti che nel concitato tentativo di reperire risorse hanno focalizzato l’attenzione esclusivamente sugli aspetti patologici del fisco, riversando complessità e costi sugli operatori sani e osservanti delle regole. Come ha avuto modo di ricordare recentemente la direttrice dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, «occorre il coraggio di cambiare» stipulando «un nuovo patto di fiducia tra imprese, consulenti e amministrazione finanziaria» che consenta di passare da una normativa sui controlli a una incentrata su sviluppo e concorrenza, superando le norme «antievasione per “principio”, che imbrigliano le società e non favoriscono i controlli».
Obiettivo che, ovviamente, non può che essere condiviso e che potrà essere realizzato tanto più agevolmente, quanto più trasparenti saranno i processi di formazione dei testi normativi di attuazione della delega fiscale, attraverso consultazioni pubbliche preliminari e tavoli tecnici di confronto con tutti gli operatori interessati, commercialisti compresi che, quando interpellati nelle apposite sedi istituzionali, hanno sempre offerto il loro contributo. Questo non garantisce certo il risultato finale, ma sarebbe già un ottimo inizio. Prestare l’animo all’ascolto, questa sì che sarebbe una grande riforma.
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