I recenti lavori parlamentari svolti dalla Commissione Giustizia della Camera sul tema dell’equo compenso hanno riacceso il dibattito sul delicato tema dei compensi professionali. L’iniziativa, apprezzabile in quanto segno di un cambio di passo da parte del Legislatore, può costituire l’occasione per una revisione sostanziale dell’attuale normativa al fine di di assicurare maggiore coerenza tra le vigenti norme di legge e i principi di tutela del lavoro, di derivazione costituzionale e codicistica.
Attualmente la disciplina sull’equo compenso (art. 13-bis della L. n. 247/2012 e art. 19-quaterdecies della L. n. 148/2017) perimetra la nullità di quelle clausole che stabiliscano un compenso “non equo” per il professionista, individuando come equo il compenso che sia:
– proporzionato alla quantità e alla qualità dell’opera svolta, e al contenuto e alle caratteristiche della prestazione nonché
– conforme ai parametri ministeriali.
Come può osservarsi, la norma, nel perseguire la determinazione del ‘compenso equo’, inteso come corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, rispetto al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, ha individuato nei parametri ministeriali tale contenuto minimo a presidio della dignità dei lavoratori autonomi. Dunque il riferimento ai parametri è divenuto, in tal modo, segnale ‘minimo’ di una corretta ed equa individuazione del compenso.
Tale disciplina, ad oggi, trova applicazione esclusivamente nei rapporti tra professionisti e clienti cd. forti basati su convenzioni unilateralmente disposte da quest’ultimo. Per contraente forte si intende:
– un’impresa bancaria e/o assicurativa,
– un’impresa diversa dalle micro, piccole e medie imprese (come definite in ambito europeo dalla raccomandazione 2003/361 CE della Commissione, del 6 maggio 2003).
Anche la PA è tenuta a garantire il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti ai professionisti, in attuazione dei princìpi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività.
Come evidenziato dal Consiglio Nazionale già all’indomani della introduzione della suddetta disciplina, la tutela apprestata ai lavoratori autonomi rischia di rimanere lettera morta poiché l’ambito applicativo è limitato a poche fattispecie e dunque non appare idonea a incidere in modo significativo sulle ricorrenti situazioni di squilibrio nei rapporti contrattuali tra operatori economici. Ora, anche il Legislatore sembra aver maturato un’identica consapevolezza: partendo, infatti, dalla constatazione che l’impatto pratico della disciplina di tutela dell’equo compenso, formulata nei sopraindicati termini, non ha determinato gli effetti sperati ai fini di riequilibrare gli sbilanciamenti ricorrenti in tali rapporti contrattuali, sono state presentate nei mesi scorsi diverse proposte di legge presso la Commissione Giustizia della Camera (in particolare gli AC 301, AC 1979 e AC 2192) con l’obiettivo di sottoporre a revisione l’intera disciplina. Si tratta di un fatto rilevante, se si considera che le proposte sono pervenute, in senso trasversale, da parte di tutte le forze politiche e che ognuna di essa ha previsto un ampliamento (più o meno significativo) dell’ambito applicativo della tutela dell’equo compenso, sia attraverso il superamento della nozione di cliente cd. forte sia tramite il riferimento a tipologie di accordo diverse dalle convenzioni unilateralmente predisposte.
In tal senso è stato evidenziato che:
- i contraenti cd. forti hanno fatto sovente ricorso ad accordi formalmente diversi dalle convenzioni per evitare l’applicazione della disciplina dell’equo compenso;
- attualmente risultano esclusi dal novero dei clienti cd. forti soggetti che nel contesto nazionale devono considerarsi tali rispetto al professionista (ad esempio le piccole imprese);
- la pubblica amministrazione è sovente riluttante nel riconoscere il diritto dei professionisti all’equo compenso[1].
La delicatezza e la complessità del tema ha indotto la Commissione giustizia ad avviare un ciclo di audizioni in merito all’esame delle proposte pervenute in modo da realizzare un ampio confronto con i principali interlocutori rappresentativi delle realtà professionali. In tale ambito il Consiglio Nazionale è intervenuto segnalando innanzitutto la necessità e l’urgenza di estendere l’applicazione delle disposizioni di tutela dell’equo compenso a un qualsiasi accordo con un committente/cliente, eliminando dunque qualsiasi riferimento alla natura o alla dimensione di quest’ultimo. L’istanza sottoposta all’attenzione della Commissione è, dunque, nel senso di applicare ‘l’equo compenso’ a qualsiasi tipo di contrattazione, anche non unilaterale, tra professionista e ogni tipologia di cliente, includendo dunque le micro, piccole e medie imprese nonché i privati consumatori. La richiesta, espressamente presentata in occasione dell’audizione del Consiglio Nazionale lo scorso 12 maggio, è stata formalizzata insieme ad altre osservazioni e proposte di modifiche in un documento inviato alla Commissione stessa.
All’esito dell’ampio ciclo di audizioni svolte sull’esame delle proposte di legge AC 301, AC 1979 e AC 2192 presentate, la Commissione ha infine adottato un testo unificato (AC 3179) quale sintesi delle istanze contenute nelle suddette proposte di legge che è, in questi giorni, all’esame dell’assemblea della Camera.
La proposta di legge in questione, nella sua attuale formulazione:
– definisce come equo il compenso che rispetta specifici parametri ministeriali e interviene sull’ambito applicativo della disciplina vigente, ampliandolo sia per quanto riguarda i professionisti interessati, tra i quali sono inclusi gli esercenti professioni non ordinistiche, sia per quanto riguarda la committenza che viene estesa anche alle società di cartolarizzazione (e loro controllate o mandatarie) nonché alle imprese che impiegano più di 50 dipendenti o fatturano più di 10 milioni di euro (artt. 1 e 2);
– estende l’applicazione della disciplina dell’equo compenso anche alla pubblica amministrazione, alle società a partecipazione pubblica (di cui al D.lgs. n. 175/2016), nonché agli agenti di riscossione (art. 2);
– disciplina la nullità delle clausole che prevedono un compenso per il professionista inferiore ai parametri, nonché di ulteriori specifiche clausole indicative di uno squilibrio nei rapporti tra professionista e impresa, rimettendo al giudice il compito di rideterminare il compenso iniquo (art. 3) ed eventualmente di condannare l’impresa al pagamento di un indennizzo in favore del professionista (art. 4);
– prevede che gli ordini e i collegi professionali debbano adottare disposizioni deontologiche volte a sanzionare il professionista che violi le disposizioni sull’equo compenso (art. 5);
– consente alle imprese committenti di adottare modelli standard di convenzione concordati con le rappresentanze professionali, presumendo che i compensi ivi individuati siano equi fino a prova contraria (art. 6);
– prevede la possibilità che il parere di congruità del compenso emesso dall’ordine o dal collegio professionale acquisti l’efficacia di titolo esecutivo (art. 7);
– disciplina la decorrenza dei termini di prescrizione delle azioni relative al diritto al compenso (art. 5) e alla responsabilità professionale (art. 8);
– consente la tutela dei diritti individuali omogenei dei professionisti attraverso l’azione di classe, proposta dalle rappresentanze professionali (art. 9);
– istituisce, presso il Ministero della giustizia, l’Osservatorio nazionale sull’equo compenso (art. 10);
– prevede una disposizione transitoria che estende l’ambito di applicazione della nuova disciplina alle convenzioni in corso, ancorché sottoscritte prima della riforma (art. 11);
– abroga, infine, la disciplina vigente (art. 12).
Alcune delle novità introdotte certamente accolgono le richieste formulate dal Consiglio Nazionale: si tratta in particolare della estensione della disciplina dell’equo compenso anche alle prestazioni professionali fornite alla Pubblica amministrazione. Negli ultimi anni, infatti, questo Consiglio aveva censurato in più occasioni la tendenza delle Pubbliche amministrazioni a richiedere, con appositi bandi, l’apporto di professionalità in forma gratuita, contravvenendo dunque ad ogni principio di tutela del lavoratore. Il testo della proposta accoglie, inoltre, altre previsioni, condivise dal CNDCEC nel corso della sua interlocuzione con la Commissione, quali l’espressa attribuzione di efficacia di titolo esecutivo al parere di congruità del compenso emesso dall’ordine professionale nonché la possibilità per gli ordini di esercitare la class action a tutela degli iscritti.
Tuttavia, nell’attuale formulazione dell’AC 3179, le disposizioni più importanti, relative al perimetro applicativo dell’equo compenso, non sono state modificate in modo significativo rispetto alla vigente disciplina e, dunque, non risultano ancora adeguate a garantire il pieno riconoscimento dell’equità del compenso del lavoratore autonomo, in conformità alle previsioni dell’art. 36 della Costituzione, nonché dell’art. 2233, 2° co., c.c.. In effetti l’estensione alle società con fatturato superiore ai 10 milioni di euro ovvero con più di 50 dipendenti fa riferimento a realtà imprenditoriali che, nel contesto italiano, si qualificano come realtà importanti, seguite per lo più da professionisti ‘strutturati’. Le modifiche apportate dunque rischiano di avere un impatto non significativo in termini di tutela soprattutto in riferimento ai giovani professionisti, che continueranno ad essere esclusi, di fatto, dalla disciplina dell’equo compenso. Diversamente, l’equo compenso dovrebbe realizzare tutti quegli obiettivi di garanzia di decoro, legittimità, tutela del lavoro, nonché garantire certezza del diritto assicurando al lavoratore autonomo, in ogni circostanza, che il corrispettivo per l’opera prestata sia proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, rispetto al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, prescindendo, dunque, dal tipo di accordo stipulato con il cliente e dalla natura giuridica di quest’ultimo.
Sul punto le obiezioni mosse all’estensione della disciplina ad ogni rapporto contrattuale intercorrente tra i professionisti e i loro clienti fanno riferimento essenzialmente alla circostanza che ciò comporterebbe una reintroduzione surrettizia dei riferimenti tariffari (individuabili nei parametri ministeriali). La individuazione di tali riferimenti (evidentemente definiti nei minimi) si porrebbe in netto contrasto con la disciplina della concorrenza di derivazione europea. Si deve evidenziare tuttavia che, sotto il profilo della disciplina antitrust, in alcune pronunce la Corte di Giustizia Europea[2] ha affermato che in materia di compensi professionali, l’indicazione delle tariffe minime e massime è vietata in quanto incompatibile con il diritto dell’Unione Europea, ma sono comunque ammesse deroghe per motivi di interesse pubblico, come la tutela dei consumatori, la qualità dei servizi e la trasparenza dei prezzi. In tal senso, non si può non constatare che la mancanza di riferimenti tariffari ha provocato nel nostro Paese un accrescimento delle asimmetrìe informative comportando sovente l’impossibilità per il cliente/consumatore di apprezzare la qualità della prestazione e la congruità del compenso richiesto. E, al tempo stesso, ha determinato una diminuzione del livello di tutela generale del lavoro, causando una progressiva emersione del fenomeno del precariato professionale.
L’auspicio, dunque, è che nel prosieguo dei lavori parlamentari si possa realmente fare tesoro dell’esperienza maturata (o meglio sofferta) sul campo dalle libere professioni intellettuali in questi anni, correggendo e superando gli effetti distorsivi di una legislazione, quella delle liberalizzazioni, che appare essere stata dettata più dal pregiudizio che dall’esigenza di accrescere la concorrenza nel mercato dei servizi professionali.
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