Grazie alla legge Cirinnà, assurta agli onori della cronaca per aver introdotto nell’ordinamento una regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, il legislatore è intervenuto a disciplinare taluni aspetti delle convivenze more uxorio, fattispecie meno soggetta a clamore mediatico ma di rilevante interesse sociale.  Il proliferare di rapporti di coppia basati su profondi e stabili legami affettivi al di fuori delle categorie tradizionali hanno spinto il legislatore a superare le remore connesse alla ridefinizione del perimetro del diritto di famiglia fissato dalla riforma del 1975 e a dettare una regolamentazione per le unioni paraconiugali. Con specifico riferimento ai profili lavoristici del nuovo formante legislativo, la legge Cirinnà si muove nel senso di garantire la tutela individuale di ciascun componente della coppia che decida di collaborare nell’impresa “familiare” sulla base di un legame affettivo e solidaristico fondante un rapporto di convivenza. In assenza di uno specifico apparato di tutela, difatti, il sacrificio lavorativo del soggetto debole nel rapporto di coppia rischierebbe di non trovare adeguata compensazione. La problematica, peraltro, è acuita dall’aumento del numero dei divorzi e delle separazioni e dal conseguente proporzionale aumento di rapporti paraconiugali sprovvisti di regolamentazione, quantunque sorti sulla base di legami sentimentali stabili.

L’art. 230-ter, introdotto nel codice civile dall’art. 1, co. 46, della L. n. 76/2016, non estende tout court al convivente lo stesso statuto protettivo previsto dall’art. 230-bis c.c., come da taluni auspicato, ma in linea con la differenziazione giuridica dei modelli “familiari” si limita all’attribuzione di alcuni diritti patrimoniali in favore del collaboratore convivente. La norma codicistica, poi, esclude ogni ulteriore diritto amministrativo e gestionale, omettendo di disciplinare le ipotesi di esclusione, alienazione, recesso e liquidazione della quota di partecipazione.

I presupposti applicativi della nuova fattispecie constano di un elemento costitutivo soggettivo ed uno oggettivo. Sul primo versante, il perimetro soggettivo di applicazione è limitato ai soli conviventi individuati dal co. 36, art. 1, della L. n. 76/2016, che definisce conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, mentre sotto il profilo oggettivo l’art. 230-ter chiede che il convivente presti “stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente”. A sorprendere è la lacunosità dell’apparato regolativo nel quale non si rintracciano indicazioni circa la corretta qualificazione del rapporto di collaborazione, oltretutto omettendo di disciplinare i profili fiscali e previdenziali dello stesso.  Un contesto giuridico che, pure considerato il “cortocircuito” della prassi amministrativa dell’INPS e dell’Agenzia delle entrate, rende particolarmente difficoltosa l’amministrazione e la gestione dei rapporti da parte dei professionisti e degli operatori del diritto.

Difatti, le lacune normative non sono state colmate neanche sul piano interpretativo dall’INPS che, alla luce dei requisiti soggettivi per l’iscrizione alla gestione commercianti e artigiani, attraverso la circolare esplicativa n. 66 del 31 marzo 2017, ha preso atto che il convivente di fatto non è contemplato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome e ha reputato che le relative prestazioni di lavoro non siano soggette ad obbligo assicurativo. Negando l’iscrizione alla gestione artigiani e commercianti, però, l’INPS non ha chiarito come vada valutato il convivente rispetto al sistema di assicurazione sociale, ingenerando una situazione di grave incertezza nella gestione dei rapporti di collaborazione familiare. Al momento la copertura previdenziale sembra di fatto impedita così come è dubbio l’assoggettamento a contribuzione obbligatoria delle quote di utile, ingenerando difficoltà anche sul piano amministrativo. L’Agenzia delle entrate, d’altra parte, con Risoluzione n. 134 del 26 ottobre 2017, ha esteso in via interpretativa la disciplina fiscale della partecipazione all’impresa familiare di cui all’art. 230-bis anche ai collaboratori conviventi, con argomentazioni apparentemente incompatibili con quelle formulate dall’INPS in relazione alla impossibilità di iscrizione alla gestione commercianti e artigiani.

In ossequio al principio universalistico che informa il sistema di tutela previdenziale, però, ai collaboratori dell’imprenditore convivente non può essere negata protezione sociale, vieppiù perché, al di là del titolo giuridico in base al quale l’attività viene prestata, l’ordinamento è ormai proiettato verso «l’estensione degli ambiti soggettivi di riferimento della tutela previdenziale a tutti i produttori di reddito da lavoro, genericamente considerati». Stante questa ineludibile necessità, seppure in termini problematici, si sostiene la compatibilità della iscrizione del convivente che collabora nell’impresa familiare alla gestione separata INPS al fine di ristabilire le condizioni minime di protezione sociale necessitate dall’ordinamento. Sul piano operativo, evidentemente, la tesi proposta necessita di riscontro da parte dell’INPS che, qualora avalli la soluzione interpretativa, dovrà fornire le istruzioni operative utili per l’iscrizione del collaboratore, per il calcolo della contribuzione e per il suo versamento.

 

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