Contaminare le professioni per condividere competenze, saperi e network. È questa la nuova frontiera del coworking per ricomprendere anche le professioni tradizionali nel ciclone inarrestabile della sharing economy e della open innovation.
Secondo Mywork.com, uno dei pochi siti a fornire dati sul fenomeno del coworking in Italia, i centri aperti fino al 2015 sono circa 300, prevalentemente concentrati al Nord (70%). I coworker sono per il 55% freelance e per il 39% imprenditori o startupper in cerca di flessibilità (86%), interazione (86%), condivisione (82%) ed opportunità (79%), mentre non sembra determinante il costo (61%).
Un’altra preziosa fonte di informazioni è Cowo, una delle più grandi reti di coworking in Italia. Secondo Cowo, nel 2015 i coworking aperti in Italia sono 349. È probabile, osservando i numeri dei nuovi coworking aperti nel corso del 2016, che a fine anno si arrivi poco sotto i 400, il 4% dei coworking mondiali. Secondo Global Coworking Survey, infatti, a fine 2016 ci saranno 10.100 coworking aperti nel mondo con 735 mila coworker operativi. Il fenomeno è previsto in crescita esponenziale nei prossimi anni a partire da un +25/30% atteso per il 2017. Secondo Cowo, le postazioni attive nei coworking italiani nel 2015 erano 4.606, di cui 2.861 in open space con una media di 13 postazioni per coworking e solo il 27% aperti 24/7.
Un fenomeno, quello dei coworking, che si sta rapidamente diffondendo anche in Italia a dieci anni dalla sua nascita negli Usa, dove abbondano i Cafèworking o Workbar, ma che presenta ancora numeri molto bassi. Ne parliamo non solo perché prevediamo una grossa crescita nei prossimi anni, in linea con la diffusione dello smart working soprattutto nei centri urbani maggiori, ma anche perché cominciano a partire sperimentazioni basate sull’apertura ed il coinvolgimento di professionisti tradizionali, come è il caso di Yoroom a Milano.
Ma chi sono i coworker? Sono i freelance, quell’esercito di lavoratori indipendenti fatto di web designer, grafici, informatici, videomaker, fotografi, traduttori, startupper, maker, ecc. Il coworker, per definizione, è un professionista senza scrivania, praticamente un paradosso per un professionista tradizionale come un commercialista od un avvocato. In questo senso, la rivoluzione del modo di lavorare tipico di un professionista tradizionale che si rivolge ad un coworking è notevole. Significa, infatti, rinunciare ad uno spazio chiuso e riservato per uno o più spazi condivisi con altri professionisti, altri lavoratori intellettuali anche di formazione, preparazione ed attitudine molto differenti. Ma poi ci sono anche i dipendenti di aziende, ad esempio quelle con sedi all’estero od in altre città dello stesso Paese, che grazie al coworking possono evitare investimenti maggiori e beneficiare di flessibilità e velocità.
Con il Jobs act per il lavoro autonomo, approvato in prima lettura dal Senato il 3 novembre 2016, lo smart working sta per diventare legge per i lavoratori dipendenti, che potranno scoprire e praticare le forme del lavoro agile, cioè “forme di organizzazione per fasi, cicli ed obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”, dove “la prestazione lavorativa viene eseguita in parte all’interno di locali aziendali ed in parte all’esterno, senza postazione fissa”.

Pensando ai professionisti tradizionali, bisogna fare, però, alcuni distinguo importanti. Non bisogna, infatti, confondere il coworking con il cd. “studio condiviso”. Quest’ultimo, infatti, è una pratica molto diffusa tra i professionisti tradizionali e, in particolare, i commercialisti. Secondo le ultime indagini della Fondazione Nazionale dei Commercialisti, circa il 20% di commercialisti svolge la propria attività condividendo l’ufficio con uno o più commercialisti od altri professionisti affini, con l’intento di dividere le spese dei locali, delle utenze ed in alcuni casi anche del personale, dell’hardware e del software di studio.
Si tratta di due realtà completamente diverse. Il coworking, infatti, si richiama alla filosofia dello smart working, della open e della social innovation ed è essenzialmente basato sull’open space, uno spazio aperto dove i coworker si trovano a lavorare fianco a fianco sulla stessa scrivania e, generalmente, senza postazioni fisse. Nella logica più avanzata del coworking, i professionisti lo usano sfruttando al massimo la contaminazione, cambiando spesso struttura. Si parla, infatti, di mobile coworking o, ancora meglio, di nomade coworking, con l’ultima moda degli open space con una buona connessione internet wi-fi aperti nelle località esotiche direttamente sul mare.
Non bisogna confondere il coworking nemmeno con il network professionale, formale od informale che sia. Le differenze, in questo caso, sono più radicali, poiché i network, nella maggior parte dei casi, non presuppongono lo smart working e l’open space. La rete professionale, quasi sempre, è basata sulle cd. “economie di integrazione e di specializzazione” che, in alcuni casi, coesistono nell’ambito di uno “studio aggregato”, condiviso od associato.
Il dato sorprendente, che avvalora le distinzioni appena esposte, è che il costo ovvero l’esigenza di ridurre le spese attraverso la condivisione non è un elemento determinante per i coworker che, invece, sono attratti dalla ricerca della connessione. Uno degli aspetti, infatti, più significativo che contraddistingue la tipica figura del coworker è la ricerca di interazioni continue e costanti che spesso nei coworking sono involontarie e gratuite. È qualcosa che potremmo definire come l’arte della contaminazione, del lasciarsi sorprendere, del farsi coinvolgere nei progetti di altri professionisti. È un elemento, questo, su cui puntano molto le grandi aziende interessate all’innovazione, che hanno sperimentato come la libertà e l’autogestione possono favorire miglioramenti di produttività e creatività molto significativi tra i propri dipendenti.
Al momento, le esperienze di commercialisti coworker sono ancora troppo limitate e poco note. Non sappiamo casa accadrà nei prossimi anni. Prevediamo una possibile diffusione del fenomeno soprattutto se i coworking che intendono ospitare anche commercialisti adatteranno le proprie strutture ad alcune esigenze di base, come la necessità di ricevere la clientela e di disporre di un archivio.
Non pensiamo, infatti, che le esperienze possano limitarsi alla funzione di supporto che i commercialisti possono svolgere, all’interno dei coworking, verso startupper e freelance in generale, rispetto ad una ovvia e spontanea domanda di consulenza nelle fasi di creazione di impresa, soprattutto per gli aspetti amministrativi, societari e tributari. Pensiamo, invece, che la figura del commercialista possa integrarsi ad un livello ancora maggiore fino a diventare un coworker totale che opera in spazi aperti con altri commercialisti e professionisti.
Molto probabilmente, la seconda o, per alcuni, terza rivoluzione digitale – che sta impattando sul mondo della professione di commercialista, dopo l’introduzione del fisco telematico, della pec e della firma digitale – cioè la fatturazione elettronica, insieme alla diffusione del cloud, potrà generare un cambiamento di portata epocale e per certi versi potrà favorire anche per i commercialisti le pratiche dello smart working e quindi del coworking. Probabilmente è una sfida da raccogliere al più presto, ed alcune iniziative sono già in corso.

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