I. Il trust

L’Istituto del trust, di matrice anglosassone, è stato introdotto nel nostro Paese con Legge n. 364 del 16.10.1989, in vigore dal 1° gennaio 1992, che ha ratificato la Convenzione internazionale dell’Aja del 1° luglio 1985, la quale stabilisce le disposizioni comuni relative alla normativa applicabile al trust nonché al suo riconoscimento. La Convenzione stabilisce sostanzialmente una disciplina uniforme per tutti gli Stati aderenti in tema di requisiti minimi che un trust deve possedere nel rispetto delle norme imperative inderogabili dei singoli Stati; non determina cosa sia il trust ma quali rapporti giuridici devono essere riconosciuti dagli Stati aderenti con il nome di trust, e a cui si applicherà la Convenzione, con le sue regole di conflitto in materia di legge applicabile e di riconoscimento.

Sviluppando quanto enunciato dall’articolo 2 della Convenzione, possiamo definire il trust come quella figura giuridica con la quale una persona fisica o giuridica detto settlor o costituente o disponente, trasferisce ad un altro soggetto chiamato trustee, anch’esso persona fisica o giuridica, beni del suo patrimonio (mobili, immobili, titoli) a titolo di proprietà, affinchè li amministri (per un periodo definito) secondo il programma definito dal settlor, e sotto il controllo di un terzo soggetto, il protector (guardiano), nell’interesse di uno o più terzi beneficiari o per un fine specifico.

Questo negozio è molto diffuso in gran parte del mondo, e anche per questo motivo, il nostro Paese è stato tra i primi ad adottare la Convenzione, sebbene non abbia provveduto a disciplinare il trust anche all’interno del nostro ordinamento giuridico, talchè il trust può essere istituito in Italia nel rispetto della Convenzione, ma il suo funzionamento verrà necessariamente regolamentato da una legge straniera scelta dal settlor (il disponente). Invero questa scelta appare condivisibile, vista la proteiformità di questo Istituto, in continua evoluzione.

Sul piano civilistico, a causa sia di una deficienza normativa che per ovvie difficoltà oggettive di compatibilità della scissione della proprietà romanistica con il nostro ordinamento (split ownership), questa figura giuridica è stata interessata in Italia, da un lento processo di metabolizzazione a mezzo di ricostruzioni dottrinarie e pronunce giurisprudenziali, tese ad “inquadrare” correttamente il trust dal punto di vista civilistico, quale negozio atipico ex art. 1322 cod. civ. Considerata altresì l’obiettiva difficoltà di poter trascrivere il trasferimento dei beni immobili e/o mobili registrati a favore del trustee (proprietario del trust fund), è stato altresì introdotto, a far data 1° marzo 2006, l’art. 2645-ter c.c. che contempla la prassi della trascrizione del vincolo di destinazione su beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela.

II. Trust commerciali e trust di natura non commerciale

In ambito tributario, fino all’anno 2006, è mancata una disciplina organica sul trattamento fiscale del trust, sia per le imposte dirette che per le indirette. Lo stesso SECIT rilevava che: “l’incertezza del trattamento tributario, frena fortemente la costituzione di trust italiani e l’operatività in Italia di trust esteri..”. In buona sostanza sia il Secit che l’Amministrazione Finanziaria (Circ. n. 55/2005), assimilavano il trust quale soggetto autonomo di imposta IRPEG ex art. 87 TUIR, e se non commerciale o non residente, ex art 143. Permanevano ampi margini interpretativi agli operatori, vigendo così una incertezza sul trattamento tributario del trust.
Successivamente, la Legge 27.12.2006 nr. 296, art 1, c. da 74 a 76, ha dettato norme sulla imposizione dei redditi dei trust, prevedendo la modifica dell’art. 73 Tuir, includendo i trust quali soggetti passivi IRES.

Al pari delle società di capitali, il trust commerciale, produce solo reddito di impresa, per il noto principio di attrazione del reddito di impresa, e tutti i suoi redditi sono determinati, secondo quanto prescritto dall’articolo 75 del Tuir, ai sensi degli artt. 81 e seguenti del citato Testo Unico.

Invece il trust non commerciale, può produrre differenti tipi di reddito, fondiari, di capitale, di impresa e diversi, ex artt. 143 c.1 e 8 del Tuir.
La diversa modalità di determinazione del reddito non è solo formale, considerato che le singole tipologie reddituali del trust non commerciale possono essere ottenute con criteri più favorevoli (si pensi per esempio alle esclusioni dal reddito ex art. 143 c. 3 lett a) e b), oppure alla determinazione del reddito con criteri forfetari ex art. 145 Tuir).
La differenziazione tra enti commerciali ed enti non commerciali, anche per il trust, si riscontra solo in ambito tributario, e precisamente con riferimento alle imposte dirette, ritrovandosi per la prima volta la locuzione “enti non commerciali” all’interno del D.P.R. 598 del 29 settembre 1973 (art. 2), “enti pubblici e privati non aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali”, quale categoria di soggetti passivi IRPEG. La locuzione è stata poi ripresa da tutti i provvedimenti normativi successivi, e da ultimo il d.P.R. 917/1986.

In buona sostanza, il discrimen tra il trust commerciale e quello non commerciale, viene tracciato dal comma 4 dell’articolo 73 del Tuir e consiste nell’indicare nell’atto costitutivo o nello statuto, se l’oggetto esclusivo o principale dell’ente è costituito o meno dall’esercizio di attività di impresa ex art. 55 Tuir, a nulla rilevando l’assenza dello scopo di lucro inserita nell’atto costitutivo. Il criterio anzidetto vale anche per la soggettività passiva ai fini Iva, ai sensi dell’art. 4 comma 1 del dPR 633/72. Se il trust ha previsto nell’atto costitutivo o nello statuto di non esercitare alcuna attività commerciale, spetterà eventualmente all’Amministrazione Finanziaria contestare ex art. 149 Tuir la “commercialità” dell’attività esercitata, con tutte le conseguenze previste dallo stesso articolo.

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