Che la certezza del diritto sia una delle questioni più cogenti di qualsiasi ordinamento giuridico è cosa più che conosciuta. Essa, infatti, si lega strettamente al problema della giustizia nell’applicazione della legge e al problema dell’equità nell’attività interpretativa. Tale certezza, proprio perché legata alla vitalità della legge, è un ideale irraggiungibile; ma tale irraggiungibilità è indispensabile al progresso e allo sviluppo dell’ordinamento stesso il quale, così in eterna tensione, si adatta alle fluide necessità contingenti della realtà. L’incertezza del diritto è dunque connaturata e necessaria all’ordinamento perché l’esercizio del diritto, dispiegato nell’attività interpretativa della legge, è per sua natura soggettivo e dunque portatore di valori personali (i quali, tra l’altro, non sono sempre esplicitati e dei quali l’interprete non sempre è consapevole). Già il Carnelutti (La certezza del diritto, in Rivista di diritto processuale civile, XX, 1943, p. 81 e ss.), così si esprimeva: “La certezza di cui parlate non si raggiunge, perché il soggetto non riesce né a sapere quello che deve volere, tanta è la massa informe delle leggi, né a prevedere la qualifica futura del suo comportamento, tanto è il mutare delle leggi”. Ma, come diceva il Capograssi, ancora nel 1950 (Prefazione a “La certezza del diritto” di F. Lopez de Oñate): “Effettivamente la certezza del diritto offre il punto di prospettiva migliore per rendersi conto degli sforzi, che va facendo la povera umanità per arrivare a comporre le ingiustizie in modo meno ingiusto”.

Non sembra che da settant’anni a questa parte la situazione sia di molto cambiata. Anzi, in Italia, la dialettica fra certezza e incertezza sembra raggiungere in numerosi casi il parossismo. Si potrebbero richiamare le note vicende in ordine alla qualificazione, da parte dell’amministrazione finanziaria, del conferimento di azienda a cui segue la cessione delle partecipazioni in tal modo ottenute in un trasferimento di azienda, nell’ottica della tassazione indiretta. Si potrebbero richiamare le vicissitudini inerenti all’alternatività tra imposta di registro e imposta sul valore aggiunto, ma ci si vuole qui soffermare su alcuni indirizzi interpretativi in ordine alla tassazione indiretta dei trust, in quanto, ultimamente, tale questione è tornata alla ribalta nella cronaca tributaria a causa di alcune sentenze, tra le prime in materia, della Corte di Cassazione.

Com’è noto non è possibile fornire una definizione specifica di ‘trust’ perché è necessario parlare di trust al plurale. Volendolo comunque delineare molto brevemente, si può dire che si tratta di un istituto già presente nel sistema del diritto comune e che è diventato col tempo uno degli istituti fondamentali dell’ordinamento britannico, in quanto istituto successorio, che ha trovato una diffusione planetaria grazie all’imperialismo di tale regno. Ultimamente è stato riconosciuto in Italia grazie alla Convenzione dell’Aja del 1985, ratificata con L. n. 364/1989, in cui all’art. 2, comma 1, una definizione di trust è stata tentata: “Per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente … qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico”. Tratto caratteristico è che deve attuarsi la cosiddetta segregazione delle cose: il patrimonio che viene inserito nel trust non appartiene più al disponente, rimane una massa separata da quella del patrimonio del trustee e non appartiene ancora ai beneficiari. Insomma, per dirla in breve, la problematica del trust nell’ordinamento italiano a matrice latina è tutta qui: viene, con questo istituto, ‘sospesa’ la proprietà, diritto centrale di tali tipi di sistemi giuridici.

Non è possibile in questa sede soffermarsi su tutte le morfologie giuridiche che i trust possono assumere (successorio, di garanzia, di passaggio generazionale di azienda, ecc.), ma fondamentali sono tre categorie, che occorre tenere ben presente per individuare una corretta tassazione indiretta di questo istituto. Si tratta del trust autodichiarato, del trust opaco e del trust trasparente. Nel primo, il costituente si nomina trustee; nel secondo, i beneficiari non sono individuati; nel terzo, essi sono individuati. Chiaramente la prima categoria e le seconde due possono trovarsi, nella pratica, in sovrapposizione tra loro.

Orbene, tralasciando l’enorme problematica di cosa si possa e si debba intendere per ‘beneficiario individuato’ (cfr. Risoluzioni 81/E e 425/E del 2008 e Circolare 38/E/2013), e volendo concentrarsi sull’incerta tassazione indiretta di questo istituto, occorre richiamare, in primo luogo, l’importante circolare dell’Agenzia delle Entrate 3/E/2008. Circoscrivendo il dibattito attorno al trust autodichiarato opaco, in tale documento viene affermato che in tal caso sull’atto di costituzione del trust deve essere applicata l’imposta sulle donazioni massima, pari all’8% della base imponibile: “Il trust è soggetto ad imposta di donazione pur in assenza di formali effetti traslativi”.

Se questa è la posizione dell’amministrazione finanziaria, prestando attenzione alla giurisprudenza non si può non rimanere sconcertati dalle differenti interpretazioni al riguardo. Si cita, per esempio, tra le innumerevoli, la sentenza della CTP di Reggio Emilia 418/02/14 in cui viene affermato che per il trust autodichiarato opaco è illegittima l’imposta sulle donazioni in misura proporzionale perché non si è verificato alcun effetto traslativo e quindi nessuno si è arricchito manifestando una capacità contributiva. La conclusione è che deve essere dunque applicata l’imposta di registro in misura fissa. Questa sentenza rappresenta perfettamente l’indirizzo interpretativo maggioritario della giurisprudenza di merito da alcuni anni a questa parte. Ma proprio recentemente la Corte di Cassazione si è posta dalla parte dell’amministrazione, emanando alcune pronunce (nn. 3735/2015 e 3886/2015) – tra le prime in materia – in cui viene ribadito che sul trust autodichiarato deve essere pagata l’imposta sulle donazioni nella misura proporzionale dell’8% in quanto ciò che è oggetto di tassazione è l’istituzione del vincolo in sé, indipendentemente da qualsiasi arricchimento.

Non si vuole in questa sede esprimersi contro l’una o l’altra delle interpretazioni. Occorrerebbe infatti al proposito sottilizzare in merito sia all’istituto in sé, sia alla lettera delle norme interessate. Ciò che si vuole rimarcare è, invece, attraverso l’esempio dei trust, questa enorme problematica della certezza del diritto. Si è preso in considerazione questo istituto perché le questioni che esso solleva mettono in rilievo le difficoltà in cui si dibattono, di questi tempi in modo più teso, lo Stato italiano e, in particolar modo, il giurista che, come primo obiettivo nella sua attività interpretativa, oltre ad essere equo per servire la giustizia, ha quello di salvaguardare la stabilità e l’integrità dell’ordinamento. I trust, infatti, minano proprio questa integrità – se l’integrità è rappresentata dalla rispondenza delle norme inferiori alle norme superiori. L’introduzione di questo istituto nell’ordinamento, in altre parole, mette in crisi il giurista perché è impossibile scorgere nel trust il riflesso di tutto il mondo giuridico dell’ordinamento stesso.

Le differenti interpretazioni che sono state precedentemente segnalate in merito alla tassazione indiretta dell’atto costitutivo di un trust possono rivelare, insomma, l’atteggiamento di ogni singolo interprete in ordine ai compiti connaturati alla sua propria attività di interprete giuridico più su esplicitate. Non sono mancate recentemente anche delle pronunce piuttosto forti, come per esempio quella del Tribunale di Udine del 28 febbraio 2015, in cui viene garantita al massimo grado l’integrità dell’ordinamento, in maniera quasi dogmatica, indipendentemente dalle norme, attraverso un disconoscimento integrale dei trust i quali “non possono essere riconosciuti dal nostro ordinamento (…) per impossibilità giuridica dell’oggetto”.
Rimane la domanda di fondo che vuole rappresentare anche una denuncia: essendo i trust uno degli istituti più diffusi al mondo, come può lo Stato italiano rimanere al pari delle grandi nazioni quando in esso sembra imperare, in alcuni ambiti non di poco conto, un’incertezza, e dunque un’ingiustizia, ormai parossistica?

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