Le ricerche che testimoniano i vantaggi per le imprese nell’impiegare manager donna ormai si sprecano. Da un’indagine del 2010 dell’Osservatorio AUB, promosso da AIdAF (Associazione Italiana delle Aziende Familiari), risulta che le leader sono portatrici di migliori performance in termini di ROE (+3,6%) rispetto ai colleghi maschi. Mentre l’indagine del 2013, a cura di Cribis D&B (Gruppo Crif), testimonia la diminuzione del rischi d’insolvenza delle aziende italiane all’aumentare delle “quote rosa” nel top management.
Questi dati non dovrebbero lasciare indifferenti, soprattutto gli uomini al “comando”, se si è interessati al miglioramento del business anche se, strano a dirsi, non è sempre il primo obiettivo a essere perseguito. Molto spesso il potere è il faro illuminante delle scelte strategiche, condiviso con chi ha la stessa età, la stessa provenienza sociale, i medesimi percorsi di studi, ecc. Senza alcuna retorica, è normale cercare alleanze tra simili, molto più facili da gestire e interpretare. Ma le conseguenze del mantenimento di un network ristretto delle relazioni ostacola le giuste decisioni in caso di scenari improvvisi o inconsueti: “abbiamo sempre fatto così” non è più un metodo vincente, soprattutto quando il mondo cambia a velocità impressionante.

Molte donne, imprenditrici o professioniste, mi chiamano per realizzare i propri sogni di carriera o di successo, la concezione di quest’ultimo non sempre coincidente con quello maschile. Infatti, il genere femminile non attribuisce la stessa importanza al potere, ma si concentra maggiormente sugli obiettivi da raggiungere, anche per dimostrare che la perfomance non è appannaggio del come si nasce, bensì effetto di abilità e competenze. Inoltre, la cultura del maschio le ha destinate in passato all’occupazione dei figli da cui è nato un esercizio costante nell’interpretare bisogni (anche se non chiaramente espressi), nel governare l’imprevisto e nel trovare soluzioni nuove a problemi diversi: non si può negare che questo potenziale appreso farebbe molto comodo alle aziende e al business in generale.
Da quanto sopra detto, parrebbe la mia un’apologia della superiorità della donna, ma non è così. In realtà, ho semplicemente fatto esperienza di migliori risultati raggiunti da imprese e studi professionali quando le decisioni provengono da persone appartenenti a generi o culture diverse.
Nel 2003, uno studio della Commissione europea dal titolo “I costi e benefici della diversità” riportava i vantaggi ottenuti dalle aziende che attuano politiche della diversità e dell’inclusione, tra cui:

vantaggio competitivo, dato dal rafforzamento del capitale organizzativo e umano;

maggiore motivazione, poiché chi si vede riconosciuto per quello che fa e non per la razza, genere o religione, esprime con maggior entusiasmo il proprio potenziale;

migliori opportunità di mercato, considerando che i clienti possono essere donne o Paesi differenti da quello dove è ubicata l’azienda.

In estrema sintesi, se vogliamo che le nostre attività imprenditoriali e professionali cambino marcia, dobbiamo aprire la porta a competenze, creatività e capacità di cambiamento e non a pregiudizi, credenze consolidate e miopia strategica.

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