Già agli albori della categoria, nei primi anni ‘900, i commercialisti si sono proposti al servizio delle imprese quali esperti nel campo della tecnica commerciale, delle scienze giuridiche e tributarie. Dalle prime affermazioni della categoria in Italia, l’ambito funzionale professionale è stato oggetto di un processo di dilatazione che ha portato i commercialisti a presidiare un campo sistematico di conoscenza multidisciplinare.

La prima norma che disciplina giuridicamente gli studi di assistenza e di consulenza del lavoro è la Legge del 23/11/1939 – n. 1815, nella quale si rintracciava già l’esigenza del legislatore di frenare gli abusi legati al sistema sociale, all’epoca in via di formazione, con l’entrata in vigore di diverse norme di previdenza e assistenza a favore dei lavoratori. Secondo l’art. 4 della sopracitata legge “la tenuta o la regolarizzazione dei documenti delle aziende riguardanti materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale non può essere assunta da parte di coloro che non sono legati alle aziende stesse da rapporto d’impiego se non in seguito all’autorizzazione del competente Circolo, dell’Ispettorato corporativo, per coloro che intendano esercitare la predetta attività nella circoscrizione di un solo circolo, e del Ministero delle corporazioni negli altri casi”.

Il successivo art. 5 esonerava dallo specifico regime autorizzativo gli iscritti negli albi degli avvocati, dei procuratori, degli esercenti in economia e commercio e dei ragionieri, abilitando questi sin dal principio all’esercizio della professione specifica.

Nel tempo, la consulenza del lavoro, nell’ambito delle specializzazioni economiche, ha assunto un ruolo sempre più centrale rispetto ai servizi di consulenza rivolti alle aziende, anche alla luce della complessificazione dell’ordinamento giuslavoristico, tanto da indurre il legislatore all’emanazione della legge 11.1.1979, n. 12, che com’è noto, ha dettato le norme per l’ordinamento della professione di consulente del lavoro. Anche nel nuovo contesto normativo, la professionalizzazione del commercialista è stata sostenuta dal legislatore che, nell’istituire la figura del consulente del lavoro, ha mantenuto la riserva legale per l’esercizio della professione in favore degli avvocati e dei commercialisti.

Come recita testualmente l’art. 1 della legge n. 12/1979, «tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti, quando non sono curati dal datore di lavoro, direttamente od a mezzo di propri dipendenti, non possono essere assunti se non da coloro che siano iscritti nell’albo dei consulenti del lavoro (…), nonché da coloro che siano iscritti negli albi degli avvocati, dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali, (i quali in tal caso sono tenuti a darne comunicazione alle direzioni provinciali del lavoro nel cui ambito territoriale intendono svolgere gli adempimenti di cui sopra)».

Trascurando i giudizi privi di pregio di quanti tentano (invano) di screditare la figura professionale del commercialista, si deve constatare che il legislatore, con la legge 11.1.1979, n. 12, ha soltanto regolato la materia prendendo atto della realtà esistente.

I dati certificano che un numero crescente di colleghi nello svolgimento abituale della professione presidia l’area lavoro raccogliendo le sfide e le opportunità offerte dal continuo mutamento delle regole del mercato del lavoro e delle relazioni industriali.

Dall’ultima indagine statistica sulla professione condotta dalla Fondazione Nazionale dei Commercialisti e dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, risulta che circa il 20% degli oltre 118.000 commercialisti iscritti all’Albo ha maturato conoscenza specialistica nell’area professionale della consulenza giuslavoristica e in quella dell’amministrazione e gestione del personale.

Stando ai dati ricavati dal portale INAIL di gestione delle deleghe delle ditte per cui l’utente opera in qualità di intermediario, l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro ha comunicato che nel mese di aprile 2018 risultavano iscritti 30.640 commercialisti a fronte dei 19.922 consulenti del lavoro.

Sulla base dei dati rilevati dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps), invece, nel luglio 2017, i Commercialisti registrati nel portale dello stesso Istituto, come intermediari per le posizioni lavoratori dipendenti e parasubordinati, ammontavano a n. 22.264 che assistevano circa un milione di imprese. Dalla stessa rilevazione si ricava che i consulenti del lavoro fossero in numero pari a 17.889.

L’ingente numero di professionisti impegnati in ambito lavoristico è l’odierna riprova del ruolo storicamente assunto dai commercialisti e, a quanti cercano di svalutare il bagaglio di conoscenze specialistiche della categoria. Basterebbe rammentare che, fino alla riforma delle professioni avviata nel 2012 e fino all’emanazione del regolamento approvato nel 2014 dal Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro, il tirocinio obbligatorio per l’accesso alla professione di consulente del lavoro poteva essere svolto indifferentemente presso i professionisti iscritti all’ordine dei Dottori commercialisti e degli esperti contabili. Questo implica che numerosi professionisti attualmente iscritti all’ordine dei consulenti del lavoro hanno svolto il tirocinio di abilitazione per la professione di consulente del lavoro presso lo studio di un dottore commercialista o di un esperto contabile.

La gestione del lavoro oggi implica conoscenze economiche, giuridiche e sociologiche, e richiede al professionista un sovrappiù di impegno nell’assistenza e nella consulenza alle imprese. Il continuo mutamento delle organizzazioni e la velocità dei cambiamenti di mercato, inoltre, impongono ai professionisti dell’area lavoro il presidio di ambiti di attività fino ad oggi spesso trascurati. Basti il riferimento alle politiche attive e passive del lavoro, alla gestione stragiudiziale del conflitto, alle politiche deflattive del contenzioso.

I commercialisti sono i professionisti idonei a gestire questa nuova dimensione dinamica del lavoro, nel rapporto e nel mercato. Capaci di presidiare l’intreccio di relazioni tra lavoratori, organizzazioni di impresa, enti strumentali della pubblica amministrazione, soggetti del mercato.

In considerazione dell’unitarietà dei processi di gestione, il Consiglio nazionale ha più volte portato all’attenzione delle istituzioni la necessità di un superamento di alcune ingiustificate disparità di carattere normativo introdotte in occasione delle ultime due riforme del mercato del lavoro.

Ci si riferisce all’ingiustificabile disparità introdotta dall’art. 40, l. n. 92/2012 (c.d. “riforma Fornero”), con riferimento ai tentativi di conciliazione obbligatoria in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La novella dell’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, consente alle parti (datore di lavoro e lavoratore) di essere assistite dalle organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o conferiscono mandato oppure da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori, ovvero da un avvocato o un consulente del lavoro. La mancata menzione dei commercialisti è un fatto inspiegabile e privo di alcuna logica, stante la chiara equiparazione tra commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro negli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti.

In egual modo è evidente l’ingiustificata disparità dell’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 in relazione al particolare regime di autorizzazione concesso per lo svolgimento di attività di intermediazione concesso all’ordine nazionale dei consulenti del lavoro attraverso l’iscrizione all’albo delle agenzie per il lavoro della propria fondazione o di altro soggetto giuridico dotato di personalità giuridica costituito nell’ambito del consiglio nazionale dei consulenti del lavoro per lo svolgimento a livello nazionale di attività di intermediazione, senza la stessa prerogativa fosse riconosciuta a tutti gli ordini nazionali dei soggetti abilitati allo svolgimento degli adempimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale (commercialisti ed avvocati) ai sensi dell’articolo 1, primo comma, della legge 11 gennaio 1979, n. 12.

Le stesse considerazioni possono essere sviluppate in materia di certificazione dei contratti di lavoro, ex art. 76, comma 1, lett. c-ter, d.lgs. n. 276/2003, con riguardo alla abilitazione alla certificazione dei contratti di lavoro delle commissioni di certificazione istituite presso i consigli provinciali dei consulenti del lavoro di cui alla legge 11 gennaio 1979, n. 12 (esclusivamente per i contratti di lavoro instaurati nell’ambito territoriale di riferimento senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e comunque unicamente nell’ambito di intese definite tra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e il Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, con l’attribuzione a quest’ultimo delle funzioni di coordinamento e vigilanza per gli aspetti organizzativi) e non anche presso i consigli dei dottori commercialisti ed esperti contabili.

Infine, l’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151, ha previsto che le dimissioni del lavoratore subordinato debbano essere presentate mediante apposita procedura telematica, a tutela del lavoratore stesso, e che la trasmissione dei relativi moduli al Ministero del lavoro e delle politiche sociali (www.lavoro.gov.it) può avvenire anche per il tramite dei patronati, delle organizzazioni sindacali, dei consulenti del lavoro, delle sedi territoriali dell’Ispettorato nazionale del lavoro nonché degli enti bilaterali e delle commissioni di certificazione di cui all’art.76 del d.lgs. 276/2003, senza attribuire le medesime prerogative ai commercialisti del lavoro, egualmente abilitati e legittimati alla gestione e alla amministrazione del personale.

Da questa serie di interventi normativi, basati su forzate scelte di politica del diritto, si registra una linea di tendenza preoccupante per la professione che, alla luce del ruolo svolto dai commercialisti nell’area professionale giuslavoristica, necessita di un ripensamento politico.

Siamo certi che un’analisi (realmente) priva di pregiudizi e forzature consenta di comprendere chiaramente l’irrazionalità di alcuni distinguo, sui quali sembra che si cerchi di costruire l’affermazione di talune categorie professionali a discapito di altre, parimenti specializzate.

Oltretutto appare quantomeno contraddittorio che da un lato alcune norme tendono ad escludere i commercialisti dall’esercizio della professione di consulente del lavoro quando l’art. 1 della Legge 12/79 equipara i consulenti del lavoro ai commercialisti ed agli avvocati che preventivamente hanno effettuato la prevista comunicazione all’Ispettorato del Lavoro, dall’altro i commercialisti vengono invitati in audizione presso le Commissioni Lavoro di Camera e Senato sull’emanazione di norme riguardanti il lavoro subordinato.

È sulla base di queste consapevolezze che, a livello comunicativo, il CNDCEC utilizza (e continuerà ad utilizzare) la locuzione “commercialista del lavoro”, ovverosia per individuare gli iscritti che offrono abitualmente servizi professionali di consulenza del lavoro. D’altronde, in loro favore, l’area di delega in Economia e fiscalità del lavoro del Consiglio nazionale ha attuato molteplici azioni finalizzate alla difesa e valorizzazione del ruolo ricoperto in qualità di intermediari abilitati.

Tale scelta si inserisce perfettamente nel solco programmatico tracciato dal CNDCEC e dal presidente Massimo Miani, in relazione alla creazione delle scuole di alta formazione (SAF) per i commercialisti italiani in un’ottica votata alle specializzazioni. Lo sviluppo del Progetto SAF poggia sui basilari principi che, in tema di formazione professionale, sono sanciti dal codice deontologico del CNDCEC. Quest’ultimo pone in capo al professionista il dovere di mantenere la propria competenza e capacità professionale al livello richiesto per assicurare ai suoi clienti l’erogazione di prestazioni professionali qualitativamente elevate, secondo le disposizioni normative, nonché le prassi e le tecniche professionali correnti. L’adempimento degli obblighi di formazione professionale continua costituisce il requisito minimo richiesto al professionista per il mantenimento della sua competenza professionale, ma non lo esonera dalle ulteriori attività formative, rese necessarie dalla natura degli incarichi professionali assunti. Muovendo da tali premesse di carattere normativo e deontologico, con il Progetto SAF si è proceduto alla costituzione su tutto il territorio nazionale di Scuole di Alta Formazione per gli iscritti nell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, con il coinvolgimento del CNDCEC, promotore dell’iniziativa, della Fondazione Nazionale di ricerca dei Commercialisti e di tutti gli Ordini territoriali.

Alla luce delle misure messe campo, dunque, respingiamo l’elargizione di semplicistiche lezioni sulla importanza dello sviluppo e la certificazione delle competenze specifiche, poiché di nessuna utilità.

Infatti, il Consiglio nazionale, sin dal suo insediamento, ha intrapreso un cammino improntato alla massima serietà e responsabilità professionale finalizzata alla migliore valorizzazione delle specialità professionali. I commercialisti del lavoro ne sono la prova e il CNDCEC continuerà a difendere il loro riconoscimento, sia all’interno della categoria sia all’esterno, salvaguardando le loro prerogative professionali.

Il tempo e la costanza darà sicuramente ragione alla nostra categoria che con grande professionalità e abnegazione assiste le aziende e, siamo certi, che nel breve futuro le norme faranno giustizia di queste incongruenze che non trovano una spiegazione né giuridica né logica.

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