Il no profit vale oggi oltre il 4% del pil italiano ed è un settore che ha continuato a crescere anche in questi anni di crisi, sia pure con maggior fatica, creando posti di lavoro, ma soprattutto rispondendo a bisogni crescenti dei cittadini, tutelando e valorizzando i beni comuni, creando capitale sociale.
Secondo il 9°censimento Istat su Industria e servizi, nel decennio tra il 2001 e il 2011 il numero degli enti no profit e? aumentato del 28%. Mentre il settore delle imprese affrontava trasformazioni e innovazioni spesso radicali, la Pubblica amministrazione ha ristretto i propri campi di azione ed ha ridotto il numero degli addetti. L’occupazione dipendente è diminuita in settori pubblici come l’istruzione (- 10,3%), la sanità e l’assistenza sociale (-8,6%). Il numero degli addetti nelle stesse attività è aumentato invece nel no profit (più 78mila nell’istruzione, più 123mila nella sanità e assistenza sociale) e nelle imprese (rispettivamente +13mila e +148mila). Per questo l’Istat parla di un “effetto sostituzione” del Terzo settore e del privato che oc- cupano gli spazi lasciati liberi dal pubblico.
L’Istat ha censito oltre 301mila enti no profit: si tratta quindi di un settore con dimensioni ormai decisamente ampie, anche se è frammmentato in una molteplicità di soggetti spesso di piccole dimensioni (i due terzi degli enti ha proventi di bilancio che non superano i 30mila euro). Complessiva- mente, comunque, conta 650mila lavoratori a cui bisogna aggiungere i lavoratori esterni o temporanei e circa 4 milioni di volontari.
Il valore economico è calcolato in 67 miliardi di euro, corrispondente, come abbiamo accennato, al 4,3% del Pil (dati Ipsos per Unicredit Foundation), mentre nel 2001 era di 38 miliardi, pari al 3,3%. Una crescita più che significativa, insomma, tanto più se si tiene conto del fatto che ulteriore valore è portato dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai volontari. Ma, al di là dei dati economici, e nonostante alcuni persistenti squilibri territoriali che vedono una maggiore presenza del no profit nelle regioni del Nord, quello che resta impossibile quantificare è il vero valore del settore in termini di benessere per i cittadini – quelli più fragili, ma non solo –, di valorizzazione dei beni comuni e del patrimonio culturale, mobilitazione nelle emergenze, salvaguardia dell’ambiente, prevenzione, ricerca scientifica. Il bene più importante prodotto è quello che si traduce in coesione sociale e sviluppo dei territori.

La riforma
E, del resto, è il patrimonio di valori e ideali che porta con sè a permettere a questo settore, e in particolare al volontariato, di godere di un altissimo tasso di fiducia da parte dei cittadini: secondo Eurispes, il volontariato registra oggi quasi l’80% di consensi, con una crescita del 4,3% rispetto al 2013. Si può fare il paragone con il tasso di fiducia accordata al Governo, che non arriva al 19%, o al Parlamento, che arriva ad un misero 10%, per capire quanto capitale sociale produca. Un segno di vitalità è leggibile anche nei dati sul finanziamento. Le entrate hanno sostanzialmente mantenuto il livello anche nei primi anni della crisi (2008-2010), in cui si è verificata una forte caduta del Pil (dati Ipsos per Unicredit). E questo grazie al fatto che, a fronte del calo dei fondi provenienti dalla Pubblica amministrazione (quasi il 14% in meno), sono aumentati in parallelo quelli che vengono dai privati (13% in più). Così, nel 2010 le entrate derivavano solo per il 36% dal pubblico (dato questo che riguarda soprattutto gli enti con funzione di advocacy), per il 30,2% da donazioni, per il 18,7% dalla vendita di beni e servizi a privati, per l’11,1% dall’autofinanziamento, per il 4,1% da altre fonti.
È in questo contesto che si colloca la riforma, o più precisamente il disegno di legge “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale”, che è ora in discussione al Senato dopo essere già stato approvato alla Camera e che affronta i problemi più importanti del settore: il riordino civilistico, la stabilizzazione del cinque per mille, la sistemazione delle varie leggi di settore, l’introduzione del servizio civile universale, la valorizzazione dell’impresa sociale e tutto il complicato tema delle agevolazioni fiscali per il no profit. L’obiettivo fondamentale è rimettere ordine tra le attuali 25 normative diverse per arrivare ad un Codice unico per il no profit.
Il testo definisce il settore (art. 1): che cosa sia, infatti, non è scontato e fino ad ora ci si regolava, di fatto, in base ad un concetto generico che si potrebbe riassumere dicendo che vi appartengono tutti quegli enti privati che stanno tra Stato e mercato e che producono beni e servizi di utilità sociale. Una definizione basata su una negazione (ciò che non è né Stato, né mercato) e molto generica. Il testo specifica che «per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività d’interesse generale anche mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale nonché attraverso forme di mutualità». Dunque ingloba il mutualismo, ma specifica che «non fanno parte del Terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati e le associazioni professionali».
Sono quindi quattro i punti fermi del Terzo settore: le finalità solidaristiche e civiche, l’assenza di scopo di lucro e la non distribuzione degli utili, il chiaro beneficio pubblico delle attività, l’utilità sociale indiscutibile.

L’impresa sociale
Fra gli obiettivi della legge c’è anche quello di spingere gli enti no profit verso una gestione più imprenditoriale delle proprie attività e di far decollare l’impresa sociale. Prendendo atto del fatto che oltre il 60% degli enti non ha personalità giuridica, le modifiche previste al codice civile dovrebbero facilitare il riconoscimento, semplificandone l’iter. Ma, soprattutto, il testo approvato alla Camera riconosce la qualifica di “impresa sociale” a tutte le cooperative sociali e ai loro consorzi e apre alla possibilità «di forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione degli utili, da assoggettare a condizioni e limiti massimi… che assicurino in ogni caso la prevalente destinazione degli utili al conseguimento degli obiettivi sociali» (art. 6, comma 1).
L’art. 9, inoltre, oltre a prevedere la semplificazione dei regimi fiscali, dà stabilità e amplia le forme di sostegno economico, pubblico e privato, tra l’altro con la stabilizzazione del 5 per mille e con la costituzione di un fondo di 50 milioni per cooperative, consorzi e altri enti che saranno riconosciuti impresa sociale. È prevista anche l’introduzione del voucher universale per i servizi alla persona: chi lo eroga godrà di una detrazione al 33% e pagherà dipendenti di imprese, asili nido, organizzazioni di terzo settore (misura pensata per fare emergere il “lavoro nero volontario”).
Tra le proposte che il Senato prenderà in considerazione c’è anche quella di abolire il concetto di “ente non commerciale”, passando ad un regime fiscale che riconosca l’esercizio dell’attività commerciale per finalità di interesse generale senza scopo di lucro, come già avviene per le cooperative sociali.

Trasparenza e semplificazione
(art.7) Accountability e trasparenza sono diventate parole chiave nel dibattito dopo gli avvenimenti dell’ultimo anno che, da mafia capitale in poi, hanno evidenziato la presenza di “aree oscure” anche in questo settore. Ma il problema del monitoraggio e dei controlli viene da lontano ed è uno dei punti nodali della legge: l’impegno è quello di introdurre controlli più efficaci, ma senza appesantire ulteriormente da un punto di vista burocratico. Già la qualifica di impresa sociale implica vincoli di trasparenza più forti e la legge obbliga a nominare sindaci terzi per verificare che la missione non lucrativa venga rispettata.
Per rendere più trasparenti i rapporti con gli enti più pubblici, è prevista l’istituzione di un Registro unico presso il ministero del Welfare. Farà invece capo al ministero del Lavoro – tramontata l’idea di un’agenzia – l’attività di vigilanza, indirizzo e monitoraggio con il supporto di un Consiglio permanente per il Terzo settore. Questo, almeno, prevede il testo approvato alla Camera, mentre il Senato sta valutando altre soluzioni, come vedremo più avanti.

Il volontariato
Tra tutte le componenti del settore, è quello più critico nei confronti della legge delega, dalla quale si sente poco valorizzato nei propri valori specifici: gratuità, democraticità e partecipazione. Inoltre i Centri di servizio contestano l’art. 5 che prevede un allargamento dei servizi ad altre componenti del settore e apre alla possibilità che siano gestiti e controllati non più solo dal volontariato. La relazione Lepri, inoltre, prevede che i Centri possano agire anche oltre il proprio territorio, cosa che li metterebbe in concorrenza tra loro, an- dando in direzione contraria rispetto alla loro volontà, più volte espressa in questi anni, di fare sistema. Altra novità sarebbe, nella proposta Lepri, l’introduzione di «voucher finalizzati al pagamento dei servizi presso i Centri di servizio accreditati, sulla base della libera scelta delle organizzazioni fruitrici». Anche al volontariato viene chiesta più trasparenza, sia attraverso nuove modalità di rendicontazione economica, sia attraverso la definizione di criteri rigorosi per le convenzioni e gli affidamenti.

Le proposte del CNDCEC
La riforma del Terzo settore interessa particolarmente i commercialisti, sotto vari aspetti, a cominciare dal fatto che molti di loro esplicano l’attività professionale nel mondo no profit: secondo l’Indagine statistica 2012 della Fondazione nazionale dei commercialisti sulla “Evoluzione della professione di Commercialista”, sono il 14,5% quelli impegnati nell’area del Terzo settore e più del 18% quelli che svolgono attività di consulenza specialistica per bilanci sociali degli Enti no profit.
Nel suo disegno complessivo, la riforma è apprezzata dal Consiglio nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili, ma con alcune riserve e proposte che hanno comportato audizioni parlamentari e il deposito di un documento finale concernente gli emendamenti ritenuti fondamentali ed in parte recepiti. «Noi riteniamo che i principi di pubblicita? e trasparenza siano un tema fondamentale. Ed e? evidente che un sistema trasparente non puo? prescindere dalla pubblicita? degli enti e degli atti da questi compiuti», spiega Sandro Santi, membro del Consiglio nazionale con delega al no profit. Su questo tema i commercialisti lavorano da tempo, avendo pubblicato delle “Raccomandazioni” economico-contabili già a partire dal 2001 e avendo partecipato al progetto di emanazione dei principi contabili per gli enti no profit, predisponendo anche altri documenti che sono un punto di riferimento per gli operatori del settore.
Il “Registro unico del Terzo settore”, nel quale devono essere pubblicati gli Enti e gli atti ad essi riferibili quali, fra gli altri, cariche, bilanci e relativi documenti accompagnatori, può andare in questa direzione, ma il testo licenziato alla Camera ne prevede l’istituzione presso il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Nella sua relazione in Commissione al Senato, però, il senatore Lepri ha scritto che è «opportuno valutare la possibilità di iscrivere le imprese sociali entro un’apposita sezione del Registro delle Imprese». È questa la soluzione delineata negli emendamenti proposti e che, secondo Santi, va adottata, e non solo per le imprese sociali. Perché «il Registro delle Imprese delle Camere di commercio fornisce garanzie di funzionalità e trasparenza, parte da una situazione già consolidata e i costi complessivi sarebbero minori e si abbrevierebbero i tempi. Si potrebbero poi prevedere condizioni agevolative anche in termini di costo per il deposito degli atti degli enti privati del Terzo settore».
Positivo è anche l’obiettivo, che la legge si propone, di una maggiore rendicontazione. «In realtà la rendicontazione per gli enti no profit è un obbligo morale, prima ancora che normativo, trattandosi di enti che perseguono scopi ideali e obiettivi di interesse generale. Serve sicuramente un maggiore impegno in questo senso, sia sul piano della rendicontazione finanziaria, sia su quello della rendicontazione sociale. Per questo bisognerebbe imporre una “relazione di missione” che illustri i risultati ottenuti, l’impatto sociale, i progetti per il futuro. Senza relazione di missione, infatti, è impossibile valutare se le risorse pubbliche e private sono state utilizzate in modo adeguato agli obiettivi dell’ente». Gli emendamenti proposti, ed in parte accolti, hanno questa finalità.
La rendicontazione va però accompagnata da adeguati controlli, per «evitare tutti quei fenomeni elusivi e di abuso che purtroppo abbiamo visto essere diffusi. Servono quindi strumenti per la misurazione dell’impatto sociale da una parte, e dall’altra un organo di controllo per verificare che siano rispettate – effettivamente e non soltanto formalmente – le finalità sociali che si intende perseguire: non può bastare, in questo ambito, l’autocontrollo. Infine, per dare completezza all’impianto legislativo, sarebbe necessario prendere in considerazione anche il tema della fallibilità di questi enti», conclude Santi. Anche in questo ambito, gli emendamenti proposti, ed in parte accolti, consentono il raggiungimento dello scopo con grande semplificazione del sistema.

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