In un periodo storico in cui l’economia nazionale fatica a ripartire con slancio, dopo la peggiore congiuntura negativa dal dopoguerra, c’è un settore che sembra aver superato gli effetti della crisi. Si tratta delle locazioni turistiche, ossia l’insieme dell’offerta di alloggi complessivamente rappresentata da case vacanze, affittacamere e bed and breakfast. In un Paese a forte vocazione turistica quale l’Italia, ricca di eccellenze artistiche, storiche, paesaggistiche ed enogastronomiche in ogni sua regione, la proposta di camere fuori dal circuito alberghiero è letteralmente esplosa nell’arco di un decennio.
Oggi l’Istat conta circa 25 mila bed and breakfast: una realtà che, secondo il rapporto B&B Italia 2016, dà lavoro a 40 mila persone e vende in media 8 milioni di pernottamenti all’anno, con un fatturato di settore di circa 270 milioni di euro (nel 2011 erano meno della metà). Lo studio evidenzia che il 72% delle strutture è localizzato tra Nord e Centro e che il 61% è gestito da donne. Per quanto riguarda la clientela, al 97% si tratta di soggetti con età compresa tra i 25 ed i 55 anni, che soggiornano prevalentemente in coppia (60%) e che si fermano per tre notti o più solo nel 9% dei casi. Un comparto in crescita, insomma, e che oggi gioca un ruolo da protagonista nell’ambito dell’offerta turistica nazionale. Al punto che l’ANBBA, l’associazione di categoria della neo ospitalità alberghiera diffusa (B&B, guesthouse, case vacanze), ha preso parte ai lavori di consultazione sul piano strategico del turismo in Italia convocato lo scorso mese di aprile dal ministro dei beni culturali e del turismo, Dario Franceschini.
Dietro questo esercito di strutture ricettive extra-alberghiere si cela però una grande varietà di situazioni, sia dal punto delle autorizzazioni sia sotto il profilo amministrativo e fiscale. Il diverso grado di “imprenditività” dei singoli gestori, la concorrenza delle potestà legislative ripartite tra Stato e Regioni e la disomogeneità delle normative locali rendono necessario un esame caso per caso. Il commercialista, figura di riferimento nell’assistenza contabile e tributaria per la maggior parte dei soggetti economici, è così chiamato ad una consulenza che, a dispetto dei volumi d’affari nella maggior parte dei casi non elevati, si presenta come tutt’altro che semplice. In tale ottica la Fondazione Nazionale dei Commercialisti ha ritenuto opportuno svolgere alcuni approfondimenti in ordine ai modelli impositivi applicabili alle diverse fattispecie esistenti di locazione turistica, proprio per fornire ai colleghi una “bussola” per orientarsi nelle attività di compliance, tanto per quanto riguarda le imposte dirette quanto per i profili IVA.
Secondo quanto previsto dal Codice del turismo (D.Lgs. n. 79/2011), il mare magnum delle locazioni turistiche può essere inquadrato in tre categorie principali: affittacamere, bed and breakfast e case vacanze. E’ bene precisare subito che molte disposizioni del Codice sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 80/2012: i giudici delle leggi, infatti, hanno ribadito l’esclusiva competenza delle Regioni in materia di turismo. Tuttavia, il focus della FNC fa riferimento alla tipizzazione contenuta nelle abrogate disposizioni, alla luce dell’oggettiva impossibilità tecnica di districarsi tra le 21 diverse normative che oggi disciplinano la materia su tutto il territorio.
Gli affittacamere consistono in strutture ricettive composte da camere ubicate in più appartamenti ammobiliati nello stesso stabile, nei quali sono forniti alloggio ed eventualmente servizi complementari. I B&B vanno intesi come le strutture ricettive «a conduzione ed organizzazione familiare», che forniscono alloggio e prima colazione utilizzando parti della stessa unità immobiliare purché funzionalmente collegate e con spazi familiari condivisi. Mentre le unità abitative ammobiliate ad uso turistico sono classiche case (appartamenti, villette, castelli, etc.), concesse in locazione ai turisti con contratti di durata variabile tra una settimana e sei mesi, senza la fornitura di alcun tipo di servizio alberghiero.
Questa prima categorizzazione consente di operare già un importante distinguo circa la commercialità o meno delle attività: ai sensi della legislazione vigente, infatti, i B&B possono essere gestiti da privati unicamente in forma “non imprenditoriale”. Se così non fosse, si ricadrebbe nell’attività alberghiera, con obbligo di dotarsi della partita IVA e di adempiere a tutti gli obblighi a cui sottostanno gli hotel. Considerazioni analoghe per le guesthouse.
Le case vacanze, invece, possono essere gestite sia in forma imprenditoriale sia in forma non imprenditoriale (anche attraverso l’intermediazione di agenzie immobiliari e società di gestione immobiliare turistica specializzate), rimanendo qualificate, in entrambe le ipotesi, come “strutture ricettive extra-alberghiere”. A tale proposito, il Codice del turismo precisa che la linea di demarcazione tra le due situazioni è rappresentata dal numero di unità abitative offerte: fino a quattro, la gestione si considera non imprenditoriale, mentre da cinque in su il gestore si presume imprenditore.
L’inquadramento della struttura in una delle tre categorie sopra citate rileva ai fini dei rapporti con la Pubblica Amministrazione, specialmente per quanto riguarda il rilascio delle autorizzazioni, la gestione delle attività e gli aspetti sanitari. Diverso però il rapporto con il fisco: la FNC mette in guardia dall’errore che fanno in molti per cui, una volta qualificato un soggetto come imprenditore o meno ai fini amministrativi, ciò si riverbera automaticamente anche nell’individuazione del regime impositivo applicabile all’attività esercitata. Non è esattamente così. In mancanza di una specifica normativa di riferimento, devono essere applicati i principi generali dell’ordinamento domestico e comunitario (soprattutto per quanto concerne l’IVA), così come interpretati dalla prassi e dalla giurisprudenza prevalenti.
Un’analisi caso per caso è imprescindibile per verificare se una locazione turistica debba essere considerata o meno un’attività d’impresa, con l’obbligo, tra l’altro, di aprire una partita IVA. I dubbi maggiori si registrano per le case vacanze, soprattutto dopo che negli ultimi anni sono arrivati anche in Italia alcuni siti specializzati che mettono in contatto proprietari e clienti, con un’operazione di “matching” che ha fatto crescere notevolmente il mercato degli affitti brevi.
Dopo un’ampia ricostruzione della disciplina europea e nazionale, la FNC evidenzia che sono rilevanti ai fini IVA tutte le locazioni turistiche svolte in via non occasionale e mediante adozione di una certa organizzazione di capitale e lavoro. Con un’importante precisazione: ad avviso della Fondazione, l’utilizzo di una piattaforma informatica per promuovere le possibilità di affitto del proprio immobile non integra di per sé tali requisiti. Tuttavia, allo stesso tempo, non può essere negata la rilevanza IVA all’operazione in presenza anche della creazione di un sito internet dedicato, di personale dipendente destinato all’organizzazione delle prenotazioni e/o al riassetto dei locali.
Una volta utilizzati i principi IVA per individuare quando la locazione di unità abitative diventa impresa, è possibile derivare il trattamento dei relativi proventi ai fini IRPEF. Il secondo “bivio” applicativo che si trova di fronte il commercialista vede, da una parte, la strada che porta ai redditi da fabbricati; dall’altra, quella che conduce al reddito d’impresa (derivante dall’esercizio di un’attività commerciale, rappresentata in questo caso non da un’attività alberghiera, bensì dalla mera locazione commerciale di immobili). A giudizio della FNC, i canoni d’affitto costituiscono un reddito fondiario quando la locazione viene effettuata senza la fornitura di alcun servizio accessorio, quali per esempio la consegna ed il rinnovo della biancheria e/o i servizi di pulizia dei locali. Tale soluzione, in assenza del requisito della commercialità, garantisce al locatore pure la facoltà di optare per il regime di cedolare secca, in presenza dei requisiti di legge.
Viceversa, i proventi derivanti dall’esercizio dell’attività commerciale potranno a loro volta essere qualificati come redditi diversi (qualora l’attività risulti essere occasionale), ovvero come redditi d’impresa (qualora detta attività venga esercitata in via abituale e sia organizzata in forma d’impresa). Con la possibilità, in quest’ultima ipotesi, di accedere al regime forfetario recato come regime naturale dalla legge n. 190/2014: se il fatturato resta contenuto entro i 50mila euro, il contribuente verserà un’imposta sostitutiva del 15%, applicata al 40% dei ricavi conseguiti, imposta che si riduce al 5% nei primi cinque anni dall’inizio dell’attività.
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