Ruolo della professione, legalità, fisco. Si è incentrata su questi tre temi la relazione del presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti agli Stati generali della categoria, tenutisi a Roma. Una difesa a spada tratta della propria funzione sociale che è partita dalla constatazione che le “istituzioni sanno perfettamente che nell’ordine e attraverso l’ordine dei commercialisti, troveranno quella chiarezza di rappresentatività e quella trasparenza di informazioni che consentirà loro sia di ottenere risposta a ciascuna domanda, sia di pianificare ogni attività di controllo”. “Fuori dall’Ordine – ha aggiunto – non è così. Fuori dall’Ordine è il disordine”. 

I COMMERCIALISTI SONO “TRACCIATI”, GLI ALTRI NO

“Quanti sono – si è chiesto Miani – quelli che offrono consulenza in materia contabile, fiscale ed economica che non sono iscritti all’Ordine dei commercialisti? Non si sa. E se nemmeno si sa quanti sono esattamente, come è possibile pianificare attività di controllo per verificare se operano correttamente? Non si può. Ed ecco allora che – ha sottolineato – per questi soggetti si interviene solo in fase repressiva. Per il resto ci si concentra su coloro che, come i commercialisti, sono agevolmente individuabili perché, per usare un termine molto in voga di recente, “tracciati””.

Così, secondo  Miani  “si crea il paradosso di trasformare in un disvalore di surplus di controlli che ad altri vengono risparmiati, quello che dovrebbe invece essere un valore: l’essere professionisti iscritti in Albi trasparenti piuttosto che in registri opachi”.

Il presidente dei commercialisti ha poi affrontato il tema degli obblighi antiriciclaggio annunciando che i commercialisti “vigileranno, se necessario chiedendo anche opportune interpellanze parlamentari ai tanti colleghi che siedono in Parlamento, per verificare che i criteri di selezione per effettuare i controlli a campione su questa materia, relativamente alla platea dei soggetti che forniscono consulenza in materia contabile, fiscale ed economica, non si risolva in una estrazione di nominativi dagli Albi dei commercialisti tenuti dai vari ordini locali, tralasciando la giungla di società, associazioni e partite IVA individuali che presta i medesimi servizi. Perché il rischio di questo modus operandi è concreto ed è dovuto semplicemente al fatto che trovare i commercialisti da selezionare è più facile”.

“Alla politica –  ha detto – così attenta e concorde nel prediligere gli strumenti di pagamento “tracciati” in un’ottica di tutela della legalità fiscale, chiediamo di rendersi finalmente conto che, per le stesse ragioni di tutela della legalità in ambito professionale, dovrebbe prediligere anche i professionisti “tracciati”, piuttosto che favorire equivalenze con chi “tracciato” non è”.

LA NUOVA IRPEF GUARDI AI CETI MEDI

La relazione di Miani ha riservato un ampio spazio anche al tema della riforma dell’Irpef, alla quale il Governo si è detto pronto a lavorare. Secondo i commercialisti la riforma dovrebbe concentrarsi anzitutto sui redditi tra 28.000 e 55.000 euro. Per Miani, per questi redditi, “l’aliquota marginale IRPEF del 38%, cui vanno aggiunti dai due e ai tre punti percentuali di addizionali regionali e comunali, costituisce una declinazione della progressività che non può definirsi costituzionale, bensì espropriativa”. “Le cose vanno chiamate con il loro nome – ha spiegato – l’attuale curva della progressività, per il ceto medio, è semplicemente espropriativa. Il dibattito sull’IRPEF degli ultimi anni si è concentrato quasi esclusivamente sul numero e l’entità delle aliquote, ma, come spesso accade, la politica affronta un tema giusto prendendolo dal verso sbagliato”. Secondo Miani “il problema della curva della progressività IRPEF non sono le aliquote: sono gli scaglioni. Aliquote del 38%, 41% e 43% non rappresentano di per se stesse uno scandalo. Lo scandalo è che comincino ad applicarsi da 28.000 euro, 55.000 euro e 75.000 euro”.

La stessa distribuzione del prelievo IRPEF, al netto dell’effetto di mitigazione rappresentato dagli 80 euro, secondo Miani “dice molto. I5% dei contribuenti (2.193.699 contribuenti che dichiarano un reddito superiore a 50.000 euro) dichiara il 24% del reddito complessivo aggregato (196 miliardi) e versa il 42% (61,8 miliardi) dell’IRPEF; il 20% dei contribuenti (8.212.358 contribuenti che dichiarano un reddito compreso tra 26.000 euro e 50.000 euro) dichiara il 33% del reddito complessivo aggregato (272 miliardi) e versa il 37% (55,4 miliardi); il 75% dei contribuenti (30.805.279 contribuenti che dichiarano un reddito fino a 26.000 euro) dichiara il 43% del reddito complessivo aggregato (356 miliardi) e versa il 21% (30,8 miliardi)”. Per i redditi più bassi, invece, secondo il numero uno dei commercialisti “il tema non è fiscale, ma al più contributivo e di integrazione salariale, come per altro dimostra la scelta stessa di questo Governo di risolvere definitivamente l’equivoco degli 80 euro a favore della natura di misura non di riduzione di pressione fiscale, ma di integrazione salariale”.

“Appena si parla di interventi sui redditi bassi, sorge il problema degli incapienti. Su 41,2 milioni di contribuenti censiti ai fini IRPEF sono circa 10 milioni quelli che già oggi, tra deduzioni e detrazioni, scontano un’IRPEF netta pari a zero. E’ dunque opportuno – ha proseguito – essere consapevoli che, se si affronta il tema della curva della progressività IRPEF dando priorità alle fasce di reddito che oggi si collocano al di sotto dei 28.000 euro, invece che a quelle che si collocano tra 28.000 e 55.000 euro, significa essere completamente fuori strada

SUPERARE DIFFERENZE TRA DIPENDENTI E AUTONOMI 

L’obiettivo di un ridisegno dell’IRPEF deve essere quello per Miani anche quello di “rendere equo il prelievo tra le diverse tipologie di lavoratori e di rendere semplice una normativa che risente ancora dell’impostazione di quasi 50 anni fa”. “Questa imposta – ha spiegato – è ormai sostanzialmente una imposta sui redditi di lavoro e pensione. E’ ormai prioritario il tema della sperequazione tra reddito disponibile dei lavoratori dipendenti e reddito disponibile dei lavoratori autonomi, a parità di salario e reddito lordo”. 

“Per i commercialisti – ha proseguito – la riforma dell’IRPEF deve partire dalla consapevolezza che già oggi la base imponibile è formata per il 98,8% dai redditi di lavoro e da pensione e soltanto per il residuo 1,2% dai redditi derivanti dall’impiego e dal realizzo di capitali e immobili. 50 anni fa l’IRPEF era stata invece pensata come imposta generale su tutti i redditi. L’equità tra lavoratori passa per l’equivalenza, a parità di salario lordo, pensione lorda o reddito lordo di lavoro autonomo e di impresa, del reddito disponibile netto che rimane dopo aver pagato imposte e contributi”.

Ciò evidenzia, secondo il numero uno dei commercialisti “che non è possibile slegare la questione IRPEF dalla questione del prelievo contributivo, la quale necessita a sua volta di una distinzione finalmente chiara tra ciò che è previdenza e ciò che è assistenza. La semplificazione normativa passa attraverso un riordino delle tante flat tax oggi esistenti e un ampliamento delle stesse a quei pochi redditi di capitale e di fabbricati che ancora scontano l’IRPEF. Nel caso dei fabbricati, su 35,8 miliardi di redditi dichiarati sono ormai solo 3,8 quelli che scontano concretamente l’IRPEF”.

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