Minibond? Il tema è certamente di quelli attuali, anche solo come tentativo di reazione al credit crunch, ma lo strumento va “conosciuto” e le imprese “preparate” per tempo, altrimenti non si riuscirà a sfruttarne le potenzialità.
E va affrontato senza taluni pregiudizi precostituiti che a volte affiorano sul ruolo delle banche, dell’intermediazione finanziaria e della finanza; mondi a volte afflitti, sì, da “patologie” da censurare, ma invero “necessari” all’economia (soprattutto delle piccole e medie imprese) quando sono “efficienti” (e? questione di “regole”) e “ben” utilizzati (ed è questione di “comportamenti”, ambito nel quale vi è spazio per la funzione del commercialista).
Il terreno da cui muoversi è poi altrettanto certamente scivoloso, considerando il deterioramento della qualità creditizia delle PMI italiane negli ultimi anni, sia per dato puntuale (il 25% circa del totale degli impieghi alle imprese è “anomalo” e, di questo, il 50% in “sofferenza”, il 30/33% ad “incaglio” e il restante e? in corso di “ristrutturazione”) che per dato tendenziale (il tasso di “ingresso in sofferenza” è più che raddoppiato dal 2008 ad oggi). A cui va aggiunto il tema della “refrattarietà” delle PMI (inversamente proporzionale alle dimensioni aziendali) ad affrontare i temi di trasparenza effettiva dei dati economico-finanziari dell’impresa verso i terzi, dovuto essenzialmente a questioni attinenti alle “soft information” (i numeri del “sommerso”, fiscalmente parlando). Già, perché pur essendo “disintermediazione finanziaria”, l’emissione dei minibond non sottrae affatto l’impresa emittente a giudizi di “merito creditizio” e di “misurabilità” dei dati economico-finanziari “nel tempo”, quindi il ruolo del commercialista nel ricorrere a tale strumento appare, di tutta evidenza, centrale.
Il mercato dei minibond conta oggi circa 96 emissioni per un controvalore di circa 5,8 miliardi di euro (erano 13 per un totale di poco meno di 2 miliardi all’autunno 2013), ed ha certamente avuto una spinta dall’evoluzione regolamentare (in specie: la tipizzazione della possibilità di “cartolarizzazione” degli strumenti emessi; la possibilità di ricorrere, in parte, al Fondo di Garanzia per i Fondi sottoscrittori specializzati; l’eliminazione dei limiti alle emissioni per gli emittenti non quotati e la parificazione del trattamento fiscale degli inter- essi passivi) e dalla creazione della piattaforma (facoltativa) di negoziazione ExtraMotPro presso Borsa Italiana. I costi di utilizzo dello strumento sono sintetizzabili in tre macro gruppi: one shot (fino al 2/3% di advisory finanziaria; circa uno 0,2/0,5% per la figura dell’arranger, a seconda che vi sia impegno “a fermo” o meno di sottoscrizione dei titoli emessi; i costi legali ed amministrativi di emissione), annuali (il costo della piattaforma, qualche migliaia di euro circa; il costo della revisione esterna annuale; il costo legale ed organizzativo della gestione delle informazioni “price sensitive”) e facoltativi (il costo del “rating” da società indipendente). I vantaggi in termini di “raccolta” di capitali, se confrontati con le alternative classiche “bancarie” disponibili “ordinariamente”, possono però essere enormi.
Infine, due osservazioni tecniche. La prima riguarda i “tassi” di emissione e la seconda la correlazione fra “motivazioni” e “tecnicalità” di emissione. Sotto il primo profilo, occorre dire che – stando ai dati disponibili (fonti: Osservatorio MiniBond del Politecnico di Milano e elaborazioni Extra- MotPro) – a fronte di una durata media intorno ai 5/6 anni (con casi limite oltre i 15), il costo medio delle emissioni si aggira intorno al 6% (il 22% delle emissioni, tendenzialmente di emittenti di maggiori dimensioni, ha tassi sotto il 5%; il tasso massimo è al 9%), mentre il 90% delle emissioni ha optato per il tasso fisso. Sulle modalità di rimborso, invece, gli emittenti più grandi prediligono forme “bullet” (rimborso in unica soluzione a scadenza) per circa il 95% dei casi, mentre i più piccoli hanno scelto tale forma (che invero consente un minor assorbimento di flussi di cassa al servizio del debito per gli anni di durata dell’emissione) solo per il 53,5% dei casi.
Tali elementi alimentano il dubbio, al variare della dimensione dei soggetti emittenti, di una “minor certezza predittiva (percepita)”, legata alle motivazioni dei piani di emissione (per oltre il 70 di “crescita”, interna per lo più e in minima parte per linee esterne; nel 20% dei casi per “ristrutturazione”) e agli emittenti più piccoli.
L’affermarsi di questo mercato – non solo sotto il profilo delle emissioni, cd. “primario”, ma anche sotto il profilo della “negoziabilità” dei titoli, cd. “secondario” – passa necessariamente per la “conoscenza” tecnica dello strumento e, soprattutto, per la capacità delle imprese di saper rimuovere quelle problematiche inizialmente richiamate (dando l’avvio a scelte di struttura economico finanziarie più solide e trasparenti), dotandosi di maggior “credibilità predittiva” (analisi controllo di gestione, piani finanziari e di investimento) e maggior “razionalità” finanziaria (correlazione fonti-impieghi, gestione di tesoreria e misurazione dei flussi di cassa); per fare questo vi è, di tutta evidenza, un ruolo attivo che possono giocare i commercialisti (ben preparati) che le accompagnano nei loro progetti di crescita. Serve, quindi, una professione “preparata” sul tema, “per” il futuro delle imprese italiane.
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