Con la Delibera n. 32 del 20 gennaio 2016, l’Autorità Nazionale Anticorruzione è intervenuta nell’ambito degli affidamenti di servizi da parte di enti pubblici agli enti del terzo settore ed alle cooperative sociali, emanando specifiche Linee Guida, al fine di fornire indicazioni operative sia alle stazioni appaltanti che agli operatori privati.
Tale intervento si è reso necessario in quanto, pur in presenza di un frequente ricorso da parte delle Amministrazioni Pubbliche agli organismi no-profit per l’acquisto o l’affidamento di numerose prestazioni sociali, mancava una normativa di settore che disciplinasse in maniera organica la materia.
La Delibera, oltre ad analizzare le diverse procedure di assegnazione dei servizi ai soggetti no-profit, indica anche una serie di prescrizioni cui questi ultimi devono uniformarsi al fine di offrire adeguate garanzie alle amministrazioni aggiudicatrici.
Per procedere all’affidamento di servizi sociali, le stazioni appaltanti hanno facoltà di richiedere requisiti minimi di idoneità al fine di garantire l’affidabilità dell’aggiudicatario sul piano tecnico ed economico-finanziario.
Oltre a tali elementi, tuttavia, anche per gli affidamenti effettuati in deroga al regime ordinario previsto dal Codice dei Contratti Pubblici, le stazioni appaltanti devono tener conto delle garanzie di “moralità” professionale, in relazione alle quali, come parametri di riferimento, possono essere presi in considerazione i requisiti individuati dall’art. 38 dello stesso.
Ulteriore requisito che le imprese del terzo settore devono possedere ai fini dell’autorizzazione e dell’accreditamento, ai sensi dell’art. 13, L. 328/2000, è l’adozione di una propria carta dei servizi, che assicuri la qualità delle prestazioni definendo standard minimi delle prestazioni da erogare, le relative modalità di attuazione, nonché criteri ed indicatori atti a misurare le performance e la soddisfazione degli utenti.
Le Linee Guida ANAC, inoltre, prevedono che, “nell’ottica di garantire l’affidabilità del soggetto erogatore e di assicurare che la prestazione affidata venga svolta nel rispetto della legalità”, le stazioni appaltanti verifichino l’osservanza, da parte degli organismi no-profit, delle prescrizioni stabilite dal D.Lgs. 231/2001. Tale norma ha introdotto nel nostro ordinamento un peculiare meccanismo di imputazione della responsabilità in capo a soggetti diversi dalle persone fisiche. In base al dettato normativo (art. 1, comma 2) ed alla Relazione Ministeriale, è possibile sintetizzare i destinatari della disciplina individuandoli nei seguenti soggetti:
a) società di persone, di capitali, cooperative;
b) associazioni non riconosciute;
c) nti pubblici economici.
A prescindere dal dato letterale, si ritiene che, ai fini dell’assoggettamento alla norma, l’elemento dirimente non debba essere ricercato nella tipologia di soggetto bensì nell’attività da esso in concreto svolta: tale approccio trova conferma nella constatazione che, in molti casi, gli enti del terzo settore presentano strutture organizzative complesse, fatturati e patrimoni rilevanti, oltre a svolgere attività nell’ambito delle quali è possibile che sia commesso uno degli illeciti compresi nel c.d. “catalogo dei reati”, definito agli artt. da 24 al 25-duodecies del Decreto.
L’attrazione dei soggetti appartenenti al mondo del no-profit nel perimetro applicativo della disciplina – già sancita a più riprese dalla giurisprudenza – è stata dunque confermata da parte dell’ANAC, la quale stabilisce che le disposizioni del D.Lgs. 231/2001 trovano applicazione anche nei confronti degli enti in questione, “in ragione sia del tenore letterale delle relative previsioni che della natura dei servizi erogati”.
Al fine di adeguarsi alle prescrizioni del Decreto, evitando altresì la comminazione delle sanzioni (sia di tipo pecuniario che interdittivo) previste nel caso in cui si configuri una condotta illecita, il dettato normativo (art. 6, comma 1) stabilisce che l’ente deve:
adottare ed attuare un modello organizzativo e di gestione idoneo a prevenire reati analoghi a quello verificatosi;
affidare ad un organismo autonomo il compito di vigilare sul funzionamento del modello e di curarne l’aggiornamento;
garantire che il succitato organismo di vigilanza espleti le sue funzioni nel modo corretto.
A tale proposito, sulla scorta di quanto prescritto dall’art. 6, comma 2 del D.Lgs. 231/2001, secondo le Linee Guida ANAC il modello organizzativo deve prevedere:
l’individuazione delle aree “sensibili”, a maggior rischio di compimento di reati;
la costruzione di protocolli e procedure idonee per la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione alle attività ed ai processi maggiormente a rischio di compimento di reati;
l’adozione di sanzioni per l’inosservanza dei modelli adottati;
l’introduzione di modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
la previsione di adeguate forme di controllo sull’operato dell’organismo di vigilanza;
l’adozione di un sistema di trasmissione dei flussi informativi all’organismo di vigilanza;
l’introduzione di apposite misure di tutela dei dipendenti che denunciano eventuali illeciti.
In base a quanto finora analizzato, la richiesta dell’ANAC di dotarsi di un modello organizzativo ai sensi del D.Lgs. 231/2001 appare certamente comprensibile ed opportuna anche per gli organismi no-profit, soprattutto in considerazione della tipologia di rapporti che intercorrono con gli enti pubblici e delle peculiarità degli affidamenti dei servizi, che in molti casi possono anche derogare dalla disciplina ordinaria. Si tratta, in definitiva, di un importante intervento in direzione di una maggiore tutela della Pubbliche Amministrazioni, che mira a garantire l’affidabilità del soggetto erogatore dei servizi, oltre che la trasparenza e la legalità nello svolgimento delle prestazioni affidate.

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