Un quarto del reddito dei professionisti divorato dalla crisi. Superava i 35mila euro nel 2008. Era sceso a 27mila nel 2013, ultimo dato disponibile dal rapporto Adepp (l’associazione delle casse di previdenza private).
Certo, con alcune differenze tra professione e professione, ma un calo generalizzato per tutti. E se la crisi ha pesato così tanto sui professionisti già affermati o comunque sul mercato da anni, si può solo immaginare l’impatto che ha avuto e ha tutt’ora sui giovani: un terzo dei giovani psicologi è disoccupato, e lo stesso vale per architetti (una delle professioni che ha più risentito della crisi) e avvocati. Non deve stupire quindi se molti neolaureati preferiscono abbandonare la strada dell’iscrizione ad un albo professionale, né se diversi professionisti che non riescono a pagare i contributi alla propria cassa di previdenza (circa 2mila euro l’anno) decidono di autosospendersi per congelare il versamento obbligatorio. Non si tratta di luoghi comuni, ma di una realtà confermata dai dati, tanto che secondo l’Adepp 9mila giovani sotto i 40 anni si sono cancellati dalla cassa di previdenza nel 2013.
Nonostante tutto, però, il numero degli iscritti agli Albi tiene. Il motivo è semplice, dicono gli addetti ai lavori: le libere professioni sono ancora considerate un rifugio per molti espulsi dal lavoro dipendente. Peccato che ora aprire una partita Iva e mettere un’insegna fuori dalla porta dello studio non basta per sfuggire alla crisi.
Tra il 2007 e il 2013, si legge nell’ultimo rapporto Adepp sulla previdenza privata, la contrazione ha superato di molto il 20%. Con le professioni tecniche che, negli ultimi anni, risultano le più colpite dalla crisi. Dal 2011 al 2013, la diminuzione reale dei redditi medi di ingegneri, architetti, periti industriali, geometri e biologi è arrivata, infatti, al 22,9%. Una escalation negativa che va di pari passo con quella dell’area giuridica (-23,7%), fino al 2012 la più colpita dalla crisi. Basti pensare che il reddito medio di un professionista di quest’area sotto i 40 anni è pari, nel 2013, a 18.187 euro. Un professionista tecnico over 40, invece, guadagna in media 27.739 euro, il 22,14% in meno rispetto al 2007.
I commercialisti naturalmente non sfuggono a questa realtà. Anzi, come testimonia il Rapporto 2015 della Fondazione nazionale di categoria guidata da Giorgio Sganga, che concentra l’attenzione sulla professione economico-contabile, è evidente come non solo diminuiscano i giovani praticanti, ma parallelamente anche i redditi professionali. L’indagine, infatti, elaborando la media reddituale tra gli iscritti alla Cassa dottori commercialisti e gli iscritti alla Cassa ragionieri, ha certificato per il secondo anno consecutivo un calo dei redditi professionali nominali (-1,3% nel 2013) e per il sesto anno consecutivo un calo dei redditi professionali reali, cioè misurati al netto dell’inflazione (-3,2% nel 2013) che, secondo il Rapporto, con ogni probabilità proseguiranno anche nel 2014, come mostrato dai primi dati raccolti. Nel 2013, infatti, il reddito medio nominale, pari a 58.437 euro, è diminuito dell’1,3% rispetto al 2012 e quello reale, che ammontava a 52.255 euro e? diminuito del 3,2% rispetto al 2011. Ma non basta. I professionisti in difficoltà, per far fronte alla flessione del reddito, utilizzano i propri risparmi o chiedono aiuto ad amici e parenti. Solo in minima parte utilizzano il contributo delle Casse di previdenza o l’assicurazione.

Le professioni più colpite
L’analisi dell’Adepp, inoltre, mostra le categorie professionali che hanno fatto registrare le perdite maggiori in termini di reddito medio: biologi, consulenti del lavoro, commercialisti, ragionieri, notai, psicologi, avvocati, infermieri, attuari, agronomi e forestali, chimici, geologi, architetti, ingegneri. Queste categorie in media, tra il 2005 e il 2013, hanno subito un decremento del proprio reddito medio nominale pari al 9,27% che in termini reali arriva al 23,4%: nel 2005 il reddito medio reale era pari a 40.896,50 euro, nel 2013 a 31.315,45 euro, quasi 10 mila euro lasciati per strada. L’area maggiormente colpita è quella tecnica che ha fatto registrare una contrazione in termini reali pari al 39,2%. Quella giuridica del 35,6%, l’area sanitaria del 25,1% e quella economico-sociale del 26%.

Le cause del disastro
La crisi economica deflagrata nel 2008, che ha portato ad infinite dilatazioni dei tempi di pagamento e a un deciso aumento delle insolvenze, è indubbiamente una delle cause principali di questa contrazione, ma certo non l’unica. Perché non si può negare come i governi che dal 2006 si sono succeduti, al di là degli schieramenti politici, hanno manifestato, nei fatti, una forte avversione ideologica nei confronti delle categorie professionali.
Le lenzuolate di Visco-Bersani ne sono solo l’esempio più clamoroso. L’obiettivo dichiarato era quello di liberare il mercato delle professioni da vincoli e steccati che ne rendevano difficile l’accesso. La motivazione nascosta invece, (ma reale) era di consentire l’accesso di segmenti influenti del mondo confindustriale in un mercato ritenuto appetibile. Dunque, riforme ispirate ai preconcetti dell’Antitrust (libera concorrenza e facilità di accesso), senza considerare che il problema non era una restrizione dell’offerta dei servizi professionali, semmai l’eccesso di offerta. Ecco quindi l’abolizione dei minimi tariffari (che il legislatore nel 2013 ha reintrodotto sotto le mentite spoglie dei parametri) che ha creato problemi enormi alle professioni tecniche, soprattutto nei rapporti con la Pubblica amministrazione. In questi anni ci sono stati appalti di progettazione con ribassi d’asta fino all’80% dove a contare era l’offerta economica più vantaggiosa, non la qualità della prestazione professionale. E poi ancora con l’eliminazione di alcune esclusive o il riconoscimento di competenze a categorie diverse dalle professioni ordinistiche. La legge 4 del 2013 sul riconoscimento delle professioni non organizzate in Ordini e Collegi ne è l’esempio più eclatante.

Professionisti esclusi dai benefici
Di contro tutta una serie di provvedimenti che hanno tagliato fuori le professioni: dall’esclusione dalla cassa integrazione in deroga al silenzio assordante sulle raccomandazioni della Commissione europea in merito al diritto dei professionisti di accedere ai fondi strutturali europei. E poi ancora la stretta sul nuovo regime dei minimi, l’aumento della doppia imposta sui rendimenti delle casse previdenziali private. Per non parlare poi di una tassazione erosiva e di una burocrazia invasiva che grava sia in termini di adempimenti, sia in termini economici solo sulle spalle del professionista.
Nel frattempo, però, agli studi professionali e ai professionisti vengono richieste sempre nuove competenze e profili innovativi, molti legati alla digitalizzazione e alla informatizzazione. E poi nuovi adempimenti. L’esempio più eclatante è la riforma delle professioni voluta dall’ex-ministro della Giustizia Paola Severino, cioè il dpr 137/2012 che attua la riforma degli ordinamenti a norma del decreto legge 138/2011, convertito nella legge 148/2011. Una riforma che riforma poco, ma che in cambio introduce diversi obblighi, che hanno anche un costo, per i professionisti, basti pensare alla formazione continua o all’assicurazione obbligatoria. L’ultimo grido di allarme in questo senso è arrivato per esempio dai sindacati di alcune professioni tecniche come ingegneri e architetti che hanno stimato in circa 5mila euro la somma iniziale a fondo perduto che un giovane deve investire per far valere il solo titolo professionale tra iscrizioni (ordine e cassa), assicurazione obbligatoria e strumentazione.
E non è finita qui perché il disegno di legge sulla concorrenza (presunta), in queste settimane in discussione in parlamento, va verso una direzione simile a quei provvedimenti. Non sarà un caso se il giorno dopo la sua approvazione alcune grandi banche hanno reso pubblica la loro discesa in campo nel settore dell’intermediazione immobiliare: quando la norma diventerà legge sarà sufficiente per loro assumere qualche avvocato e gran parte delle operazioni di compravendita potrà essere fatta senza passare dai notai.
Certo, forse il legislatore piuttosto che fare di tutto per mettere i bastoni tra le ruote a un settore economico già in forte crisi, ma comunque capace di contribuire sul Pil per il 15% e di generare un volume d’affari pari a 196 miliardi di euro, avrebbe dovuto sostenerlo. Anche solo per arruolare i professionisti come ausiliari o truppe di complemento della scassatissima macchina pubblica. E quindi per farla funzionare meglio.

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