Uno degli aspetti fondamentali che emerge dalla riforma del Terzo settore consiste nel rafforzamento del processo di ibridazione attraverso il quale si tendono a ridefinire i confini fra le aree tradizionalmente lasciate alle forze di mercato, caratterizzate fondamentalmente dal connotato del lucro soggettivo e quelle abitate da soggetti miranti a perseguire finalità di pubblica utilità, il c.d. “bene comune”, anche in relazione all’attuazione del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale (art. 118 Cost.), nel tentativo di colmare i vuoti d’intervento lasciati da un settore pubblico sempre più assente e privo di risorse.
Il novello codice del Terzo settore appare allora come l’ultimo e forse più importante strumento di realizzazione di tale contaminazione normativa, che segue l’introduzione di molteplici istituti quali l’impresa sociale, le società benefit, le start up a vocazione sociale oltre alle imprese culturali e le società sportive dilettantistiche lucrative di ancora più recente adozione.
La tradizionale dicotomia fra settore “profit” che trova la sua fonte normativa riferimento nel libro V del c.c. e “no profit” regolato dal libro I, viene sempre più messa in discussione nei suoi assetti costitutivi, non soltanto per le relative modalità organizzative e di governance, ma per le stesse finalità perseguite.
Risulta infatti ormai unanimemente riconosciuto che enti no profit possano svolgere attività economiche o, per meglio dire imprenditoriali, per il raggiungimento delle proprie finalità ideali, e che possano anche perseguire un, seppur circoscritto, scopo lucrativo (limitata distribuzione degli utili nell’impresa sociale) e che, di contro, realtà imprenditoriali possano non soltanto impiegare forme organizzative proprie del Terzo settore, ma possano anche porsi finalità non esclusivamente lucrative, enfatizzando la loro vocazione sociale (società benefit, imprese culturali, società sportive dilettantistiche lucrative, ecc.).
Tanto da mettere in discussione se ancora possa parlarsi di un settore for profit e di uno no profit, intesi a compartimenti stagni o, se gli sconfinamenti oggettivi e soggettivi, siano ormai tali e tanti da generare un unico sistema economico, in cui ogni impresa è anche sociale, nel senso di possedere una spiccata responsabilità sociale e sia in grado di misurare l’impatto sociale, oltre che economico che produce e ogni ente debba simmetricamente possedere anche caratteristiche d’impresa, sia dal punto di vista organizzativo, che del perseguimento e della misurazione dei risultati non soltanto sociali ma anche economici raggiunti.
Forse l’unico tratto distintivo ontologico che ancora permane risiede nella finalità primaria (cui tuttavia è possibile associarne una secondaria o strumentale di segno opposto), caratterizzata dal lucro soggettivo negli enti for profit e dalla sua assenza negli enti no profit.
Così argomentando, seppure l’impresa in quanto tale, può perseguire in aggiunta alla principale finalità lucrativa una sociale, quest’ultima andrà sempre vista in senso strumentale alla prima, come capacità di maggiore attivazione della finalità primaria, costituendo un elemento di competitività aggiuntiva capace di attrarre o fidelizzare nuovi clienti o nuovi mezzi finanziari a titolo di capitale di rischio o di credito, rafforzando i propri marchi o la propria reputazione complessiva, sempre in funzione della massimizzazione del profitto, che rimane l’obiettivo primario.
Così come, per converso, l’ETS in quanto tale rimane connotato in via primaria dall’assenza di lucro soggettivo, inteso come divieto di distribuzione anche indiretta degli utili o degli avanzi di gestione (non distribuition costraint) e dalle finalità civiche solidaristiche, di utilità sociale prioritariamente perseguite, mediante lo svolgimento di attività di interesse generale per lo più tassativamente previste, alle quali sono tuttavia affiancabili attività diverse esercitabili anche in forma d’impresa o aventi natura commerciale, ferma restando la loro secondarietà e strumentalità rispetto alle finalità istituzionali prioritariamente perseguite.
In tale prospettiva anche una forma di limitata remunerazione del capitale investito nell’impresa sociale (che non a caso, a differenza delle società benefit, fa parte a pieno titolo del terzo settore), deve essere vista soltanto come strumento per aumentare la capacità di attrazione di fonti di finanziamento rivolte al perseguimento del fine ultimo del bene comune.
Tale impostazione, fu fatta propria dal legislatore della delega, che ha previsto, non soltanto la possibilità che i futuri ETS potessero svolgere attività d’impresa, fermo restando i requisiti di secondarietà e strumentalità rispetto alle finalità istituzionali (prescrizione effettivamente realizzata dai decreti delegati), ma anche che la nuova definizione fiscale di ente non commerciale avrebbe dovuto fondarsi sulle finalità di solidarietà sociali effettivamente perseguite, sul divieto di distribuzione anche indiretta della ricchezza prodotta o raccolta (assenza di lucro soggettivo) ed eventualmente sull’impatto sociale prodotto, senza più alcun riferimento alla natura commerciale o meno dell’attività svolta per il raggiungimento del fine.
Tale prescrizione (art. 9 L. 106/2016) fu salutata con particolare favore sia dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili che dalla stessa Agenzia delle Entrate, i quali, nei rispettivi documenti di audizione parlamentare, impiegando per altro analoga terminologia, avevano sostenuto come “la realtà avesse ormai ampiamente superato la norma civilistica sdoganando definitivamente l’idea che gli enti non profit si qualifichino per la finalità non lucrativa e non per l’attività svolta che può essere anche commerciale”.
Purtroppo a tale prescrizione della delega non è stata data coerente attuazione nei decreti delegati.
La puntuale definizione di ETS, da più parti auspicata e contenuta nell’art. 4 del codice, che si fonda in modo preponderante sulle finalità (civiche solidaristiche e di utilità sociale) perseguite e sull’assenza di lucro soggettivo, (le attività di interesse generale previste dall’art. 5, ancorché elementi oggettivi, acquistano rilievo ermeneutico in quanto espressione mediata di quelle finalità), in realtà collide con la successiva riproposizione della tradizionale dicotomia fiscale fra enti commerciali e non commerciali, fondata sullo svolgimento in via principale di attività commerciale e non, appunto, sulla sovraordinata definizione codicistica.
Si riproporranno allora tutte le problematiche relative all’inquadramento tributario degli enti, ai vantaggi fiscali basati sull’attività e non sulle finalità, all’individuazione dell’angusto perimetro delle attività legittimamente esercitabili dagli ETS senza rischiare di perdere i relativi benefici, in palese contrasto con la citata prescrizione normativa.
Il criterio fiscale codicistico di ETS non commerciale, fondato sul principio di gratuità delle prestazioni (o dietro versamento di corrispettivi non eccedenti i costi sostenuti), per altro diverso rispetto a quello previsto dal TUIR, non pare del tutto soddisfacente e comunque idoneo a scongiurare i numerosi problemi applicativi che tanto contenzioso hanno prodotto e, purtroppo, continueranno a generare in futuro.
In particolare, a mente del comma 5 dell’art. 79, non risultano decommercializzate, né le attività secondarie e strumentali (quelle che erano le attività connesse per le onlus) seppur svolte in conformità ai criteri di cui al decreto previsto dall’art. 6, né le prestazioni rese agli associati verso pagamento di corrispettivi specifici, delineandosi quindi una disciplina fiscale addirittura punitiva per gli ETS rispetto a quella precedentemente in vigore ed, almeno in parte, a quella relativa al restante novero degli enti no profit disciplinati dal TUIR.
Alcuna traccia infine, di una fiscalità di vantaggio, misurata sulla base dell’effettivo impatto sociale prodotto dagli ETS (c.d. fiscalità compensativa specifica), in contrasto con il richiamato precetto contenuto nella delega.
Continuare a volgere l’attenzione degli interpreti e dei soggetti preposti al controllo, sui mezzi anziché sugli scopi, continuerà ad essere fonte di una defatigante attività volta alla verifica del rispetto di inutili formalismi a discapito del sostanziale perseguimento del bene comune, vale a dire il reale valore di riferimento attorno a cui il mondo del terzo settore dovrebbe ruotare.
E a chi avesse obiettato la non conformità di siffatto sistema normativo alla disciplina comunitaria sulla concorrenza e sul divieto di aiuti di Stato, sarebbe stato agevole replicare che le numerose procedure di infrazione intentate contro l’attuale normativa, si fondano sull’esistenza di molteplici regimi derogatori costruiti in assenza di una disciplina generale di (Terzo) settore; esattamente il contrario rispetto al risultato che sarebbe stato ottenuto introducendo un sistema di regole peculiari, ma pur sempre generali per il settore, non semplicemente derogatorie, idonee a disegnare un quadro normativo coerente e autonomo rispetto a quello connotato dalla finalità lucrativa.
Per assicurare l’assoluta coerenza di tale quadro normativo rispetto ai menzionati principi comunitari, avrebbero dovuto semplicemente essere approntati (come per altro, almeno in parte è stato fatto, attraverso il rafforzamento dei controlli e degli obblighi di trasparenza) tutti quei sistemi di allerta in grado di far emergere, al di là dei fenomeni fraudolenti di abuso della qualifica di ETS, anche quelle realtà, nate per il perseguimento di finalità di solidarietà sociale, che avessero, nei fatti, manifestamente mostrato una prevalente vocazione imprenditoriale, nelle quali cioè l’attività d’impresa legittimamente svolta, non si ponesse più in posizione strumentale, ma autonoma o preponderante rispetto alle finalità ideali, ormai solo formalmente o secondariamente perseguite.
Inoltre anche a livello comunitario la possibilità di ammettere c.d. aiuti di Stato o comunque tollerare una qualche lesione al principio di libera concorrenza non è più un tabù.
Il principio di libera concorrenza non va più inteso in senso assoluto e avulso dal rispetto e contemperamento di altri principi aventi eguale dignità, riconoscendo forme di vantaggio a determinate imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o che comunque generino, nel loro operare, un positivo impatto di carattere sociale.
Basti pensare alla legittimazione da parte della Commissione europea di un sistema di tax expenditures incentivante sul piano ambientale, mirante da una parte ad aggravare l’imposizione fiscale delle imprese inquinanti, dall’altro di agevolare o compensare quelle imprese eco-responsabili, che siano in grado di non impattare o addirittura migliorare l’equilibrio ambientale.
Traslando il principio sul piano del campo di azione del Terzo settore, sussisterebbero indubitabilmente tutte le ragioni, sia a livello comunitario che nazionale (data l’attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale), per riconoscere agli enti ad esso appartenenti, una capacità contributiva speciale rispetto a quella degli altri soggetti d’imposta, valorizzando le minori uscite a carico dello Stato per effetto dell’azione sociale svolta, prima ancora delle maggiori entrate che da questa potrebbero derivare.
Avrebbe cioè potuto essere riconosciuta la piena legittimità (quasi un diritto costituzionalmente tutelato) ad avere un regime fiscale differenziato in ragione delle finalità di utilità sociale perseguite (fiscalità compensativa di carattere generale), indipendentemente dalle attività (anche imprenditoriali) realizzate per il perseguimento di quelle finalità, oltre che singoli interventi fiscali di vantaggio (fiscalità compensativa specifica), legati all’effettivo impatto sociale dell’attività concretamente svolta, introducendo adeguati sistemi di misurazione e valutazione di tale impatto sociale (come appunto previsto dalla delega).
Niente di tutto ciò è avvenuto, anzi aver riproposto il tradizionale binomio degli ETS fra commerciali e non commerciali, fondato sul criterio della prevalenza delle attività commerciali svolte rispetto a quelle istituzionali, non soltanto non ha riconosciuto l’evoluzione normativa e interpretativa nazionale ed europea, che ormai pacificamente ammette il contemperamento delle regole della concorrenza con la funzione sociale del Terzo settore e quindi la legittimità di una fiscalità compensativa generale e specifica, ma tende addirittura ad aggravare anziché eliminare i rischi di indebita concorrenza.
Essendo infatti il giudizio della prevalenza relativo, cioè da verificare all’interno di ogni ente, tale criterio tenderà ad avvantaggiare gli enti più grandi che, per il fatto di avere entrate istituzionali rilevanti, saranno ammessi ad effettuare anche attività commerciali ben più rilevanti rispetto ai piccoli enti, in cui attività commerciali seppur minime non saranno ammesse (o meglio faranno perdere la qualifica di ente non commerciale, con i conseguenti benefici fiscali), in quanto comunque eccedenti le entrate di natura liberale.
Ciò produrrà una doppia lesione della concorrenza, sia nei confronti dei competitor for profit, che dovranno sopportare la presenza di soggetti agevolati di maggiori dimensioni, sia nei confronti degli ETS più piccoli, in quanto assoggettati a limitazioni delle proprie attività commerciali (e quindi della capacità di autofinanziare le attività istituzionali) più stringenti rispetto a quelli più grandi.
Se il legislatore avesse operato la scelta coraggiosa (ma del tutto in linea con le prescrizioni delegate) di spostare il focus normativo dall’attività svolta alle finalità perseguite, facendo prevalere, anche a fini tributari, la nuova definizione generale di ETS, avrebbe fatto fare al sistema normativo un decisivo salto di qualità, nella direzione di una maggiore chiarezza e coerenza sistematica.
Così facendo, una volta efficacemente presidiato l’effettivo perseguimento degli scopi non lucrativi e di solidarietà sociale degli ETS, qualsiasi attività necessaria al conseguimento delle finalità ideali avrebbe potuto essere ammessa, senza pericolo di perdere la qualifica di ETS ed il relativo regime fiscale di vantaggio.

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