Nella storia dell’Unione Europea il 23 giugno 2016 non è stata una giornata come le altre: per la prima volta un partner importante, come il Regno Unito, ha deciso democraticamente di uscirne, non condividendo più – ammettendo che abbia mai pienamente condiviso – il percorso delineato dai padri fondatori.
In 60 anni di vita della Comunità europea molte cose sono cambiate; il terribile ricordo del secondo conflitto mondiale, che aveva costituito la base della nuova comunità, è stato offuscato dagli avvenimenti più recenti, come la lunga crisi economica che ha interessato il nostro continente – e, della quale ancora non si vede la conclusione – e l’impatto dei flussi migratori. L’Europa del Mercato unico, capace, al contempo, di garantire la libera circolazione delle persone, dei capitali, delle merci e dei servizi, con una propria anima sociale ed una particolare attenzione alla tutela del lavoratore, non è stata in grado di comprendere appieno le istanze della sua popolazione, così come confermato dal Parlamento europeo nella Raccomandazione del 28 giugno 2016, che ha invitato ad un’attenta riflessione sul futuro dell’Unione e sulla necessità di implementare le necessarie riforme.

Prima di approfondire la presente analisi è però necessario fare un passo indietro, ricordando le condizioni che hanno portato ad indire il referendum. Nella campagna per le Politiche del 2015, il partito conservatore, al fine di arginare l’ascesa dello United Kingdom Independence Party (UKIP) guidato da Farage, ha promesso un referendum nel caso in cui avessero vinto le elezioni. Dunque è stato il premier Cameron, favorevole al remain, ad indire il referendum fissandolo per la data del 23 giugno, dopo che era riuscito ad ottenere, nel febbraio 2016, importanti concessioni da parte dell’Unione Europea. L’esito del voto con la vittoria del leavecon il 51,9% delle preferenze, è stato deciso, di fatto, solo dal 36% del totale degli aventi diritto al voto.

Senza entrare nel merito delle scelte democratiche britanniche, si osservi che hanno votato per il remain la Scozia, l’Irlanda del nord e le principali città inglesi, mentre il leave ha prevalso nelle zone più rurali e nelle regioni che, più di altre, hanno beneficiato dei fondi europei, quali la Cornovaglia ed il Galles. Ma il dato più preoccupante, analizzando il fenomeno da un’ottica europea, è che nella classe di età tra i 18 e i 24 anni ben il 73% si è espresso a favore del remain, ma solo il 36% di questi ragazzi si è presentato ai seggi. Dunque, sebbene favorevole all’Unione Europea, la grande maggioranza dei più giovani non ha sentito la necessità di esprimere la propria opinione su una questione che riguarda più loro chele classi d’età più avanzate (che si sono espresse per il leave). Sicuramente è mancata da parte dell’Unione un’azione adeguata di comunicazione e coinvolgimento dei più giovani nel costruire un progetto a lungo termine, così come essa ha fallito nel ribadire il proprio ruolo di promotore dello sviluppo nelle aree più depresse del Paese.

Ora che il popolo si è espresso, si attende che il Regno Unito dia avvio alla procedura di recesso prevista dall’art. 50 del Trattato dell’Unione Europea, che richiede il raggiungimento di un apposito accordo per la cui conclusione sono previsti due anni dalla notifica. Termine che, con grande probabilità, verrà prorogato, visti i diversi aspetti sui quali negoziare. La partita che si sta giocando in questi giorni è tutta in seno al partito conservatore e riguarda la futura leadership dei tory.

Che si tratti di una “hot potato” e che Brexit possa costituire un pericoloso “boomerang” per l’intera economia britannica è testimoniato dalla posizione assunta dalle figure più carismatiche che hanno caratterizzato la battaglia tra il “leave” e il “remain”, a partire dalle dimissioni del Primo ministro britannico David Cameron e di Nigel Farange da leader dello UKIP, sino alla volontà dell’ex sindaco di Londra Boris Johnson di non candidarsi per la successione a Cameron, al punto che si parla di un vero e proprio “poisoned chalice” che attende il futuro primo ministro. Chi gestirà ora il delicato percorso di uscita dall’Unione avviando i relativi negoziati? Quando verrà effettuata la notifica all’Unione, fermo restando che il referendum del 23 giugno è solo consultivo e vincola solo politicamente il Regno Unito all’uscita? La legislazione comunitaria in materia di libera circolazione continua ad essere in vigore, e per quanto ancora?

All’ultima domanda ha fornito una risposta l’INPS con il Messaggio n. 2936 del 4 luglio 2016 che ha evidenziato la circostanza che, nonostante l’esito del referendum ed il dibattito in corso, il Regno Unito continua ad essere uno Stato membro dell’Unione e che, come tale, deve rispettare il diritto dell’Unione Europea. Pertanto, almeno nel breve periodo, per il lavoratore transnazionale non sono previste modifiche né sul fronte della documentazione di ingresso e soggiorno nel Regno Unito né con riferimento alla copertura sanitaria né riguardo alla materia del coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale regolata dal Regolamento n. 883 del 2004 né, infine, relativamente ai pagamenti delle pensioni INPS in Gran Bretagna (a parte la presumibile volatilità del cambio per un periodo non stimabile).

Solo quando la procedura prevista dall’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea sarà conclusa, i trattati non troveranno più applicazione e sarà possibile valutare se ed in quale misura la regolamentazione comunitaria sarà superata.
Proprio la libera circolazione delle persone sembra essere la principale vittima di questo passaggio, che si teme possa essere sacrificata sull’altare delle relazioni commerciali tra il Regno Unito e l’Unione Europea. È tale prospettiva di incertezza che sta spingendo molti cittadini dell’Unione che lavorano nel Regno Unito a verificare la possibilità di rientrare nel Proprio Paese di origine o il trasferimento in altri Stati dell’Unione, con il rischio di un’importante fuoriuscita di “cervelli” dal mercato britannico.

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