Secondo il rapporto dello SVIMEZ, nel 2014 l’Italia è stata l’unico grande paese in Europa che ha presentato una crescita ancora negativa: il PIL reale è calato dello 0,4%. Si è quindi accentuata la forbice della crescita con l’economia europea: dall’inizio della crisi l’economia europea è cresciuta di circa 0,7 punti cumulati, quella italiana ne ha perso circa 9. La fase recessiva appare essersi conclusa solo nella seconda metà del 2014, quando l’economia ha dato segni di miglioramento, ollecitata dalla domanda estera favorevole e dal lento recupero dei consumi. I segnali di ripresa sono continuati nella prima parte del 2015, con un miglioramento del clima di fiducia di famiglie e imprese, favorito dalla caduta del prezzo dei prodotti petroliferi e dalle politiche monetarie accomodanti, che hanno portato a una riduzione dei tassi di interesse e al deprezzamento del cambio.

Nel primo trimestre del 2015 il PIL è cresciuto dello 0,3%. Se nel complesso l’economia italiana sta uscendo dalla crisi, il Mezzogiorno, tuttavia, non vede ancora segni significativi di ripresa. Secondo valutazioni elaborate dalla SVIMEZ, nel 2014 il Prodotto interno lordo è calato nel Mezzogiorno dell’1,3%. Ciò perché le regioni del Sud hanno risentito non soltanto dello stimolo relativamente inferiore rispetto al resto del Paese della domanda estera, ma anche della riduzione della domanda interna, associata al calo della loro competitività sul mercato nazionale, che ha riguardato sia la spesa per consumi – la cui flessione è attribuibile, per parte importante, al calo dei consumi pubblici – sia la spesa per investimenti, che si è ridotta ulteriormente, più che nel resto del Paese.

La flessione dell’attività produttiva è stata molto più profonda nel Mezzogiorno che nel resto del Paese, con effetti negativi che appaiono ormai strutturali e spiegano la maggiore difficoltà di crescita e la minore capacità di ancorarsi alla ripresa internazionale. La crisi ha depauperato le risorse del Mezzogiorno e il suo potenziale produttivo: la forte riduzione degli investimenti ha diminuito la sua capacità industriale, che, non venendo rinnovata, ha perso ulteriormente in competitività. Non sarà facile disancorare il Mezzogiorno da questa spirale di bassa produttività, bassa crescita, e quindi minore benessere, poiché la spinta della domanda estera, che sta attualmente trainando la debole ripresa del Centro-Nord, ha nel Sud un peso assolutamente modesto. Il ruolo delle politiche appare, quindi, essenziale per ridare fiato alla crescita dell’economia meridionale.

Un impatto fondamentale per la ripresa potrebbero avere i Fondi strutturali, i quali mostrano, invece, ritardi nell’attuazione dei piani relativi alla programmazione 2007-2013. L’impatto della crisi si riflette soprattutto nell’ampia caduta dei redditi e dell’occupazione, che a sua volta genera una riduzione dei consumi delle famiglie meridionali.

La caduta degli investimenti ha interessato tutti i settori dell’economia, assumendo dimensione particolarmente ampia nell’industria in senso stretto, completamente crollata al Sud. Sette anni di recessione sono stati inevitabilmente segnati, oltre che dalla crisi occupazionale di giovani e donne, da crescenti fenomeni di esclusione sociale e dal raggiungimento di livelli allarmanti di povertà, così come recentemente rilevato anche dall’Istat. Sulla base dei redditi rilevati nel 2013, in Italia è a rischio di povertà il 18,1% delle persone La differenza fra aree territoriali è notevole: nel Centro-Nord risulta esposto al rischio di povertà un individuo su dieci, nel Mezzogiorno uno su tre.

La regione italiana in cui è più alto il rischio di povertà è la Sicilia (41,8%), seguita dalla Campania (37,7%). Inoltre, risulta un profondo divario tra le aspettative delle nuove generazioni in termini di realizzazione personale e professionale e le concrete occasioni di impiego qualificato sul territorio. Tale divario ha determinato negli anni Duemila la ripresa dei flussi di emigrazione, prevalentemente tra i giovani. Attualmente la Legge di Stabilità per il rilancio del Mezzogiorno ha portato la percentuale di utilizzo dei fondi strutturali europei dal 15% all’80%, ha ottenuto l’approvazione da parte della Commissione Europea di 47 programmi operativi su 50 per la programmazione al 2020, ridato una prospettiva di ripresa ad aziende del Mezzogiorno che rischiavano la chiusura (da Whirlpool a Firema, alla ex-Irisbus, per restare solo in Campania).

A questo punto tocca ai soggetti che hanno responsabilità politico-governative intervenire in maniera decisa per individuare soluzioni concrete in tempi rapidi. Occorre, in primo luogo, l’adozione di un piano volto alla ripresa dell’industria, che preveda le indispensabili agevolazioni fiscali utili ad impedire la migrazione industriale all’estero, ove si incontra un costo del lavoro più basso e un prelievo fiscale più leggero: dal potenziamento del credito di imposta per le attività di ricerca e sviluppo alla riduzione dell’IRAP nelle regioni del Sud, dall’incremento della decontribuzione sulle assunzioni a tempo indeterminato agli incentivi per l’imprenditorialità giovanile.

Occorre, in secondo luogo, agire sul versante delle infrastrutture, provvedendo ad una logistica più integrata e puntando, in particolare, sui porti meridionali, da individuare da un punto di vista sia commerciale sia turistico quali punti hub per numerose mete del Mediterraneo. Urgono piani di finanziamento per la ricerca e lo sviluppo, che stimolino i giovani laureati a restare al Sud e a coltivare le potenzialità del loro Paese, contribuendo, al contempo, ad assicurare progresso culturale, scientifico e tecnologico ad aree depresse.

E’ necessario, inoltre, puntare sulla straordinaria bellezza del territorio per realizzare campagne le quali, sulla base della valorizzazione della cultura e delle attrattive del Mezzogiorno, incrementino il movimento turistico e commerciale. Ma vi è di più. Andando in senso contrario ad una prospettiva di progressivo abbandono e nella prospettiva, invece, dell’incremento dell’occupazione giovanile d’Italia. Si pensi, ad esempio, alla tradizione sartoriale, a quella delle antiche cioccolaterie, agli orafi, ai ricamatori, ai pellettieri o – secondo la tradizione settecentesca napoletana – agli artigiani in grado di lavorare a mano presepi con pastori dagli occhi di vetro, mani di porcellana e vestiti di seta. Tradizioni antiche sono, infatti, fortemente presenti nelle professioni artigianali e ciascuna regione, con le proprie città, ne vanta alcune, specifiche e caratterizzanti.

Allo scopo di fornire supporto allo sviluppo economico-sociale e, in pari tempo, al miglioramento della qualità della vita, si propone, in particolare, la costituzione di Laboratori della tradizione, i quali incentivino la produzione di numerose tipologie di prodotti artigianali e la loro esportazione all’estero nonché la formazione di manodopera artigiana specializzata. I Laboratori avrebbero l’obiettivo di sviluppare il sistema delle attività artigianali e di formare le professionalità all’interno di esse, con un gran fascino oltre un elevatissimo valore commerciale. Si pensi a quanto le nostre tradizioni sono ricercate, desiderate e imitate in tutto il mondo e come diano vita ad una forte attrattiva culturale ed artistica.
Per sviluppare i Laboratori occorrerà definire:

1) delle zone franche, in un’ottica sia finanziaria sia fiscale, a favore
di soggetti (artigiani-formatori, giovani avviati alle attività autonome)
individuati in base a specifiche caratteristiche;
2) un sistema formativo che sia in grado di trasferire le conoscenze
della tradizione da coloro che le hanno praticate per anni a coloro che desiderano
acquisirle, oppure a coloro che, avendo già un’impresa artigiana, hanno la
necessità di poter contare su una maggiore e più qualificata manodopera;
3) le professioni artigiane caratterizzanti ciascuna Regione e città
metropolitana;
4) gli immobili o le aziende che possano essere utilizzati per ospitare i Laboratori stessi.

Riguardo a quest’ultimo punto, può utilmente pensarsi, al contempo, ad assicurare la migliore gestione e valorizzazione dei beni confiscati alle Mafie. Considerando anche i dati poco confortanti circa l’enorme numero di beni confiscati alla criminalità organizzata tuttora in attesa di destinazione e nell’ambito di un più generale approfondimento del tema della gestione di tali beni ai fini del contributo allo sviluppo economico, potrebbe risultare di grande utilità se detti beni venissero impiegati a favore dei Laboratori della Tradizione, come sede degli stessi. Da un lato si registrerebbe una riduzione di oneri per l’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati alle Mafie, che ne cederebbe la gestione, dall’altro, si recupererebbero non soltanto immobili ma persino intere aziende non utilizzate, sebbene perfettamente funzionanti.

Si potrebbe, poi, creare un sistema incentivante per rimettere questi immobili in uso, consentendo alle imprese ristrutturatrici di accedere ai lavori con incentivi fiscali, che garantirebbero – poste determinate condizioni insuperabili (ad esempio, i tempi di consegna e la qualità dei lavori) – di rimettere in moto una parte dell’economia, dando opportunità di lavoro a molti.

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