La Commissione UE ha deliberato sulla presunta illegittimità, rispetto alla normativa comunitaria sugli “aiuti di Stato” che violano il principio di “libera concorrenza”, di ruling fiscali (tecnicamente parlando, ATA – advanced tax agreements) concessi dalle Autorità irlandesi a due società del gruppo Apple ivi residenti. L’importo da restituire, secondo la Commissione, ammonta a ben 13 miliardi di euro circa, oltre agli interessi, e si riferisce alla sommatoria delle agevolazioni irregolari ottenute nel periodo dal 2003 (la normativa degli “aiuti di Stato” retroagisce fino a dieci anni dall’inizio della procedura) al 2014 (a partire dal primo gennaio 2015 il gruppo Apple ha modificato la sua struttura fiscale irlandese, ndr).

Non è quindi in discussione “il regime tributario irlandese in generale né l’aliquota sulle società applicata nel paese”, attualmente pari al 12,5%, bensì due ruling fiscali (uno del 1991 e l’altro del 2007) che concedevano “modalità di determinazione degli utili imponibili […] non corrispondenti alla realtà economica” poiché “la quasi totalità degli utili veniva imputata internamente ad una sede centrale […] esistente solo sulla carta” (cioè fittizia). In buona sostanza, in forza dei ruling ottenuti, secondo la ricostruzione della Commissione, da un lato, venivano caricati all’Irlanda costi (deducibili) relativi ad attività di ricerca e sviluppo su base mondiale e, dall’altro, attratta a tassazione solo parte della base imponibile legata (forfetariamente) alle sole attività irlandesi. Occorre peraltro ricordare come tutte le vendite realizzate nei paesi europei dai distributori e dai negozi locali (che agivano da meri depositi) venivano imputate direttamente ad una delle due società irlandesi (Apple Sales Int’l; l’altra è società di logistica/assemblaggio).

Apple ha prontamente replicato, in pari data, con una “lettera aperta”, negando gli addebiti, soprattutto in ordine all’inesistenza dei ruling contestati, rilevando l’incertezza giuridica conseguente (che rischia di comportare una riduzione degli investimenti in UE oltre che di Apple anche di altre multinazionali) e sollevando obiezioni sugli effetti retroattivi della decisione della Commissione.
Invero, nel giugno 2013 la Commissione ha iniziato l’esame delle pratiche di ruling fiscale in alcuni Stati membri ai fini della valutazione della potenziale distorsione della concorrenza. Nel dicembre 2014 ha esteso a tutti gli Stati membri le richieste di informazioni. Nell’ottobre 2015 sono state sanzionate (rispettivamente per accordi in Lussemburgo ed in Olanda) Fiat e Starbucks. Nel gennaio 2016, (per accordi in Belgio) altre 35 multinazionali. Sono tuttora in corso procedure (in Lussemburgo) su Amazon e Mc Donald’s. A ottobre 2015, infine, è stato siglato l’accordo politico per uno scambio automatico di informazioni sui ruling fiscali.

La procedura nei confronti di Apple si apre nel 2013. A giugno 2014 la Commissione scrive la lettera (qui prima citata) alle autorità Irlandesi. Nel 2015 Apple modifica l’organizzazione della sua struttura fiscale in Irlanda (cioè in concomitanza con la sottoscrizione dell’accordo di scambio di informazioni citato). A fine agosto 2016 la Commissione comunica la sua decisione.
L’effetto dell’applicazione dei ruling ha comportato, ad esempio, il fatto che “nel 2011 (secondo le cifre comunicate durante audizioni pubbliche del Senato USA) Apple Sales International ha registrato utili per […] circa 16 miliardi di EUR […] ma a norma del ruling fiscale solo 50 milioni di EUR circa erano considerati imponibili in Irlanda: rimanevano quindi 15,95 miliardi di EUR di utili non tassati. Di conseguenza, nel 2011 Apple ha versato in Irlanda un’imposta societaria corrispondente a un’aliquota effettiva dello 0,05% dei suoi utili annuali complessivi […] negli anni successivi l’aliquota effettiva è diminuita ulteriormente, fino a scendere ad appena lo 0,005% nel 2014.”

Vi è poi una questione ulteriore che verte, sotto il profilo tecnico, sulla regola fiscale americana di differimento delle imposte sulla parte di utili realizzati all’estero e tassabili solo al momento del loro “rimpatrio” effettivo. Apple ha accantonato diversi miliardi per versamenti supplementari quando riporterà fondi in America, ma si tratta di imposte “non pagate” (rectius, “differite”) su circa 200 miliardi di dollari e – di tutta evidenza – anche questo comporta una distorsione nel carico fiscale effettivo e del processo di armonizzazione della fiscalità internazionale.

La violazione della concorrenza e della normativa sugli aiuti di Stato trova la sua ratio negli articoli 107 e 108 TFUE. In sintesi, una misura rientra nel campo di applicazione del principio di incompatibilità quando: (i) ha origine statale ovvero mediante risorse statali…”; (ii) concede un vantaggio “selettivo” a talune imprese od a talune produzioni; (iii) falsa o minaccia di falsare la concorrenza (in ambito comunitario); (iv) incida sugli scambi tra gli Stati membri. Posto l’inciso «sotto qualsiasi forma» contenuto nella norma, è giuridicamente considerato pacifico, in via generale, che anche misure fiscali possano costituire violazioni al principio del divieto degli aiuti di Stato (cfr. giurisprudenza della Corte di giustizia e Comunicazione 98/C 384/03).

Ciò determina, da un lato, la legittimità dell’intervento della Commissione e, dall’altro, sposta il fulcro della questione sulla legittimità o meno dei ruling fiscali contestati. Il punto centrale, quindi, diventa questo: nonostante la Commissione “in sé” non abbia specifici poteri di intervento in materia fiscale, è la validità o meno degli accordi fiscali convenuti fra l’Irlanda ed Apple a determinare gli effetti della vicenda; se sono irregolari, cioè selettivi e rilevanti sugli scambi fra gli Stati membri nonché distorsivi della concorrenza in ambito comunitario, la tesi della Commissione risulterà vincente, altrimenti no.
Occorre dire che, in linea di principio, il ricorso ai ruling (rectius, come detto in premessa, ATA) non costituisce “di per sé” una violazione automatica del principio di libera concorrenza, essendo, soprattutto in alcuni Stati, di diffuso utilizzo (non così in Italia, dove è stato solo recentemente introdotto in casi particolari e dove è invece più diffuso lo strumento del cd. ’interpello”, che si differenzia dal ruling poiché attiene a questioni “interpretative” di norme già esistenti e non ha contenuti “derogativi” alle stesse).

Invero, il ricorso a tale strumento da parte di uno Stato membro dovrebbe comunque allinearsi ai principi (sottoscritti) del TFUE ed alle indicazioni dell’OCSE, in virtù dei quali il trattamento eventualmente riconosciuto ad una impresa (o ad un settore) non deve essere “selettivo” e le transazioni tra eventuali parti correlate (compresi i “riparti di costi e ricavi, come nel caso di specie) devono rispondere a condizioni e termini che sarebbero applicati dalle stesse anche in assenza di qualsiasi collegamento funzionale.

La Commissione sostiene l’illegittimità dei ruling nel caso di specie e va detto, sul punto, che – in assenza di elementi diversi a difesa delle ragioni di Apple, non ancora resi noti – da quanto emerge dai documenti analizzati (e linkati qui in calce) risulta difficile non concordare con le conclusioni della Commissione sull’irregolarità dei ruling, tanto sotto il profilo della selettività (il contenuto di ripartizione dei ricavi all’interno della struttura utilizzata “non” si presta a “replicabilità” automatica) quanto sotto il profilo della “congruità” delle imputazioni contabili (fra branch irlandese e sede centrale, aggravata dalla “fittizietà” di quest’ultima).
Quanto al soggetto tenuto a pagare, questi è, ai fini della normativa in esame ed in linea con tutti i precedenti, l’impresa che ha beneficiato degli aiuti irregolari (in questo caso costituiti da minori imposte accumulate che ne hanno aumentato la disponibilità finanziaria destinabile ad investimenti), quindi, nel caso di specie, Apple. Ciò è anche di logica linearità, stante che, non trattandosi di una “multa” ma di una “restituzione” di un indebito vantaggio, questo si è generato gravando sui contribuenti dello Stato che non ha incassato le imposte altrimenti dovute, e, qualora si imputasse a quest’ultimo il pagamento, i suoi cittadini (taxpayers) si vedrebbero gravare di un doppio danno (il vantaggio concesso all’impresa e la restituzione con le proprie tasche).

Difficile, nonostante tutto, dire come finirà. Intanto perché non sono disponibili (per ora) “tutti” i documenti necessari e la Commissione, nel suo operato, non ha illustrato (ad ora) il criterio oggettivo della determinazione della cifra dei 13 miliardi di Euro (presumibilmente, sarà proprio questo uno dei punti su cui verteranno le tesi difensive, che cercheranno di ridurre la base imponibile per ottenere la riduzione delle imposte da restituire). Infine, perché le pressioni politiche (ed economiche) internazionali – stante la rilevanza eclatante della cifra e del soggetto debitore – si faranno sicuramente sentire ed è difficile prevederne gli esiti.

Resta fermo un fatto: la Commissione pare essersi mossa nel rispetto sia dei suoi poteri che nella ricostruzione della “selettività” dei ruling contestati. Le imposte è, sì, opportuno che siano il più possibile contenute (per più ragioni di efficienza economica); la sovranità fiscale dei singoli Stati non è qui in sé in discussione e la competizione (al ribasso) fiscale nemmeno, purché sia “a pari condizioni”, non “ad personam”. Difendere e sostenere pratiche distorsive, siano esse il ricorso ai ruling irregolari che a pratiche evasive (si, anche l’evasione genera, economicamente parlando, effetti sulla concorrenza), non risponde affatto a principi liberali.

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