Il padre biologico iscritto alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza ha diritto all’indennità di maternità in alternativa alla madre? In un momento storico in cui il concetto di famiglia è in continua evoluzione e nel quale alla figura paterna è sempre più riconosciuto un ruolo fondamentale nella crescita e nello sviluppo dei figli in un’ottica di integrazione e di alternanza delle figure paterna e materna, il nostro ordinamento ammette ancora discriminazioni di genere?

Nell’individuare le risposte, occorre necessariamente verificare dalle disposizioni dettate dal Testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (D.Lgs. n. 151/2001) che, però, non sembra lasciare margini sul punto. L’art. 70, dedicato esplicitamente al diritto delle libere professioniste all’indennità di maternità, al co. 3-bis, in vigore dal 25 giugno 2015, dispone che “l’indennità … spetta al padre libero professionista per il periodo in cui sarebbe spettata alla madre libero professionista o per la parte residua, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre”. Il diritto del padre viene previsto, dunque, in casi “limite”, intervenendo “in subordine” alla madre solo laddove quest’ultima non sia in grado di poter accudire il figlio.

Risposte più puntuali sono state fornite dalla giurisprudenza, che, nella propria funzione adeguatrice, è intervenuta nel colmare il vuoto normativo. Se da un lato la Corte costituzionale ha riconosciuto perfettamente fungibili le posizioni del padre e della madre in caso di adozione e affidamento (sentenza n. 385/2005), dall’altro ha riconosciuto legittima una differenza di genere in presenza di gravidanza e puerperio di una madre biologica, dovendosi valutare una protezione specifica diretta a preservarne la salute nel periodo anteriore e successivo al parto, situazione indubbiamente non assimilabile a quella del padre (sentenza n. 285/2010). In sostanza la Corte, invocando peraltro l’intervento del legislatore al fine di modificare l’ordinamento e tenere conto delle nuove istanze, ha voluto affermare due forme di tutela: quella dell’esercizio della genitorialità da parte del padre e della madre affidatari o adottivi, finalizzato al pieno sviluppo della/del minore; e la salute psico-fisica della madre biologica.

La necessità di tutelare la salute della madre biologica è stata evidenziata anche dalla recente sentenza n. 8594/2016 della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi in merito alla richiesta dell’indennità di maternità da parte di un professionista avvocato alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense. La Suprema Corte ha confermato che le situazioni della madre e del padre biologici sono differenti, accordando il diritto all’indennità di maternità al padre solo nei casi eccezionali di infermità della madre o del suo abbandono del nucleo familiare, ovvero nei casi di adozione ed affidamento.
Alla luce di quanto sinteticamente esposto, si è portati a rispondere in senso negativo alla prima domanda – ad esclusione dei casi limiti di cui si è accennato – ed in senso affermativo alla seconda.

Occorre comunque rilevare come le previsioni in materia di lavoro autonomo e libere professioni trovino riconoscimento nel nostro ordinamento con estrema lentezza. Proprio con riferimento alla tutela della maternità delle libere professioniste, si noti come la stessa fu introdotta con la legge 379/1990, una data sorprendentemente recente se si considera che l’ammissione delle donne all’esercizio delle libere professioni fu espressamente prevista dalla legge 1176/1919. La legge 379, infatti, fu l’ultimo atto di un percorso avviato dapprima a favore delle madri dipendenti nel 1950, e modificato nel 1971, nella forma più vicina alla disciplina attuale, e successivamente delle madri lavoratrici autonome, con la legge 546/1987.

Ipotizzando che le riflessioni e le norme rivolte al mondo del lavoro dipendente siano ancora una volta il preludio delle previsioni in materia di lavoro autonomo e libere professioni, diamo conto di un’iniziativa che di recente ha animato il dibattito pubblico e, in più modesta misura, quello parlamentare. Ci si riferisce alla proposta emendativa alla Legge di Stabilità per il 2016 presentata dalla senatrice Valeria Fedeli, che prevedeva l’introduzione dell’obbligatorietà del congedo di paternità della durata di 15 giorni, respinta a causa dei vincoli di bilancio. È indubbio, però, che essa risponda ad una nuova e specifica istanza: quella dei giovani padri che sempre più vogliono prendere parte alla crescita dei propri figli e figlie fin da primi giorni di vita. Ne sia testimone la prassi per cui vengono utilizzate le ferie o parti di esse proprio nel periodo successivo al parto, e l’aumento – per ora non sensibile ma costante – del congedo di paternità. Quali proposte per un congedo di paternità efficace? L’obbligatorietà può essere utile per modificare la tradizionale percezione, da parte della società, per cui i padri siano dediti essenzialmente al lavoro. Le caratteristiche determinanti – e l’esperienza europea lo dimostra – sono l’esclusività e la congrua retribuzione. In Norvegia la quasi totalità dei padri usufruisce del congedo parentale perché, in caso contrario, andrebbe perso.

Chiediamoci, infine, cosa possano fare le organizzazioni per agevolare la partecipazione dei padri. È di questi giorni la notizia che una cooperativa sociale bolognese ha introdotto, tramite regolamento interno, un congedo di paternità obbligatorio di 15 giorni. Degno di particolare nota è, poi, il modello adottato nella Provincia Autonoma di Trento, sperimentato negli ultimi 3 anni su tutto il territorio nazionale, per il quale le aziende di ogni tipologia e dimensione autonomamente decidono di rideterminare l’organizzazione del lavoro proprio al fine di mettere al centro i bisogni della famiglia ed incentivare la partecipazione dei padri nella gestione dei suoi bisogni.

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