Con il D.L. n. 83/2015, convertito nella legge n. 132/2015, il legislatore ha profondamente novellato l’art. 118 L.F. e modificato la disciplina della chiusura del fallimento con lo scopo, da una parte, di evitare che la durata dei giudizi in cui sia parte la Curatela possa alimentare i ricorsi ex legge Pinto e, dall’altra, col fine di accelerare il procedimento di esdebitazione dell’imprenditore fallito.
Più nello specifico, il legislatore ha disciplinato la possibilità, per il curatore, di chiudere il fallimento anche qualora vi siano cause pendenti ulteriori rispetto a quelle indicate dall’art. 117, comma 2, L.F.
L’esigenza sottesa alla nuova disciplina, sinergica a quella di cui all’art. 104 ter L.F. – concernente i termini per la liquidazione dell’attivo – è quella di limitare la durata delle procedure fallimentari. Con le modifiche alla legge Pinto (non applicabili retroattivamente) introdotte dal D.L. n. 83/2012, convertito in L. n. 134/2012, si è, infatti, previsto che la procedura concorsuale debba trovare la sua conclusione nell’arco temporale massimo di sei anni, affinché possa dirsi rispettato il c.d. termine di ragionevole durata dei processi. Non solo: il Decreto Sviluppo incide anche sulla quantificazione del danno ed il giudice sarà tenuto a liquidare, a titolo di equa riparazione una somma di danaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, fermo restando che la misura dell’indennizzo non potrà, comunque, essere superiore al valore della causa (Cfr. ed a conferma Cass. sent. n. 9452/2015).
I primi commentatori della novella hanno ritenuto che la chiusura anticipata del fallimento ex art. 118 n. 3) L. F. non possa essere decretata laddove siano pendenti giudizi con finalità recuperatoria che postulino, quindi, una successiva attività di liquidazione nell’ambito della medesima procedura fallimentare. Tale interpretazione è avallata, ad esempio, dalla direttiva assunta dal Tribunale di Monza – Sezione Fallimentare – del 19.01.2016, che ha ritenuto non applicabile l’art. 118 n. 3) L.F. nei casi di revocatoria con acquisizione in natura del bene. Fermo restandola possibilità di chiudere il fallimento per le cause passive, quali, ad esempio, le ipotesi di opposizione allo stato passivo, le impugnazioni di crediti ammessi, la revocazione con crediti ammessi in pendenza dell’istanza di insinuazione tardiva del credito.
Come previsto dall’art. 120, comma 5, L.F., e come peraltro già sottolineato, la chiusura del fallimento non è impedita dalla pendenza di giudizi rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi ai sensi dell’art. 43 L.F. Il novellato art. 118 L.F. prevede al comma 2 che “nei casi di chiusura di cui ai numeri 3) e 4), ove si tratti di società, il curatore ne chiede la cancellazione dal registro imprese”.

Da qui sorgono alcune difficoltà, sia in tema di cancellazione dal Registro Imprese sia in punto di regime fiscale, stante la rigida osservanza alle norme tributarie cui è assoggettato il curatore.
In particolare:

  • circa la cancellazione di una società fallita dal Registro delle Imprese, se comporterà o meno la decadenza del contribuente fallito dal diritto all’esigibilità del credito fiscale eventualmente a lui spettante al termine del contenzioso pendente;
  • circa la cessazione della partita IVA, il curatore potrebbe dover svolgere alcune operazioni attive dovute all’esito vittorioso di cause revocatorie o recuperatorie, ponendosi il dubbio circa la necessità di riaprire una posizione IVA (con conseguenti obblighi da assolvere) oppure se tali operazioni possano essere considerate occasionali e, pertanto, escluse ex artt. 1 e 4 D.P.R. 633/1972 dall’ambito di applicazione dell’imposta;
  • circa gli introiti, derivanti dall’esito vittorioso dei giudizi pendenti alla data di chiusura della procedura, potrebbero risultare sottoposti a tassazione solo a partire dal momento in cui comportassero la formazione, secondo le indicazioni contenute nell’art. 183 TUIR, di un residuo attivo. Il curatore avrebbe, dunque, l’onere di presentare una o più dichiarazioni integrative di quella già trasmessa entro i termini ordinari, esponendo il reddito imponibile venutosi a formare successivamente e sottoponendolo a tassazione. Ponendosi l’ulteriore dubbio circa l’applicabilità o meno delle sanzioni per i ritardati adempimenti dichiarativi e di versamento delle imposte dovute;
  • circa i riparti supplementari ex art. 118, comma 2, L.F., occorrerà verificare se il curatore conservi la qualifica di sostituto d’imposta, con i conseguenti obblighi ed adempimenti dichiarativi (versamento di ritenute d’acconto, mod. 770, ecc.).

Secondo alcuni commentatori, la novella non avrebbe inciso sugli obblighi fiscali del curatore che saranno posticipati, unitamente alla cancellazione della partita IVA e dell’iscrizione al registro imprese, al momento del riparto finale, alla conclusione dei contenziosi. In tale momento sarà comunque tenuto: i) alla presentazione della dichiarazione di cessata attività e di chiusura della partita IVA; ii) alla presentazione, ai fini delle imposte dirette, della dichiarazione relativa al risultato finale delle operazioni compiute nel periodo fallimentare entro l’ultimo giorno del nono mese successivo a quello di chiusura del fallimento; iii) alla presentazione della c.d. dichiarazione IVA relativa al periodo compreso tra il 1° gennaio e la data di chiusura del fallimento.
A ben vedere, sembrerebbe allora che il nuovo art. 118 L.F, pur raggiungendo l’obiettivo di assicurare la giusta durata del processo, pecca di coordinamento con la vigente normativa fiscale, creando conseguentemente non pochi problemi operativi al curatore che, in questo campo, rischia pesanti sanzioni.

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