L’ampio dibattito sui criteri utili all’individuazione della residenza fiscale nell’ordinamento tributario italiano si arricchisce di un nuovo capitolo, a testimonianza dell’incertezza che ancora caratterizza questo fondamentale argomento. Oggetto delle attenzioni dell’Amministrazione finanziaria è stato, ancora una volta, un noto sportivo campione di motociclismo di cittadinanza italiana che, iscritto all’AIRE (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero), aveva da tempo trasferito la propria residenza nel Principato di Monaco, Paese ricompreso nell’elenco degli Stati e dei territori aventi un regime fiscale privilegiato di cui al D.M. 4 maggio 1999.

Rispetto agli illustri predecessori, ai quali veniva contestata la sussistenza del domicilio in Italia (uno dei tre requisiti fondamentali contemplati dall’art. 2 del TUIR), nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate ha cercato di percorrere una nuova strada, consentita dall’adesione dello sportivo allo scudo fiscale previsto dal D.L. 25 settembre 2001, n. 350, tanto nel 2002 quanto nel 2003, rimpatriando in Italia un’ingente quantità di capitali. Per l’Agenzia, la circostanza che lo scudo fosse riservato ai residenti fiscali e che non potesse sussistere alcun interesse per un cittadino straniero a scudare capitali in Italia, costituiva, già di per sé, un’autodichiarazione di residenza, rendendo superflua la valutazione di quella documentazione presentata dal contribuente per vincere la presunzione relativa di cui all’art. 2, co. 2-bis del TUIR,. Tale impostazione, che comunque ha trovato accoglimento tanto in primo (Commiss. Trib. Prov. Lazio Roma Sez. VI, 6 dicembre 2011, n. 493) quanto in secondo grado (Commiss. Trib. Reg. Lazio Roma Sez. XXXVIII, 19 febbraio 2013, n. 40), è stata respinta dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 30 settembre 2016, n. 19484. Per la Suprema Corte, l’assenza di una chiara previsione normativa comporta che la dichiarazione riservata non assuma valore decisivo ai fini dell’attribuzione della residenza in Italia, ma possa essere unicamente oggetto di valutazione nell’ambito del complesso degli elementi probatori acquisiti in giudizio ai fini di cui all’art. 2, co. 2-bis, del TUIR.

La stessa Amministrazione finanziaria ha richiamato, con la circolare 24 giugno 1999, n. 140, una serie di elementi che possono costituire mezzi di prova, tra i quali: la sussistenza della dimora abituale nel Paese fiscalmente privilegiato, sia personale che dell’eventuale nucleo familiare; l’iscrizione ed effettiva frequenza dei figli presso istituti scolastici o di formazione del paese estero; lo svolgimento di un rapporto lavorativo a carattere continuativo, stipulato nello stesso paese estero, ovvero l’esercizio di una qualunque attività economica con carattere di stabilità; la stipula di contratti di acquisto o di locazione di immobili residenziali, adeguati ai bisogni abitativi nel paese di immigrazione; fatture e ricevute di erogazione di gas, luce, telefono e di altri canoni tariffari, pagati nel paese estero; la movimentazione a qualsiasi titolo di somme di denaro o di altre attività finanziarie nel paese estero e da e per l’Italia; l’eventuale iscrizione nelle liste elettorali del paese d’immigrazione; l’assenza di unità immobiliari tenute a disposizione in Italia o di atti di donazione, compravendita, costituzione di società, ecc.; la mancanza nel nostro Paese di significativi e duraturi rapporti di carattere economico, familiare, politico, sociale, culturale e ricreativo.

La pronuncia di giudici di legittimità è degna di nota proprio per aver confermato il principio secondo il quale la residenza fiscale di un individuo deve essere accertata esclusivamente nel rispetto delle regole previste dall’art. 2 e 2-bis del TUIR. Tale soluzione non risolve comunque le numerose criticità collegate all’interpretazione del dettato normativo.
L’aspetto più problematico è quello riconducibile alla verifica del domicilio in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta, dovendosi valutare, in una prospettiva dinamica, una serie di elementi non codificati, che riguardano principalmente la sfera soggettiva. L’analisi della volontà del soggetto di stabilire e conservare in un preciso luogo la sede principale dei propri affari ed interessi, anche prescindendo dalla propria presenza fisica, costituisce un esercizio complicato, che richiede necessariamente un confronto tra relazioni affettive/familiari e relazioni economico/patrimoniali.

In merito, l’Amministrazione finanziaria, richiamando il consolidato orientamento della Suprema Corte, riconosce maggior valore alle relazioni di tipo familiare, con la conseguenza che deve essere considerato residente fiscale in Italia colui che si è trasferito per motivi di lavoro all’estero ma che abbia lasciato la famiglia in Italia. Sul punto si deve però segnalare un orientamento differente della stessa Corte di Cassazione con la sentenza n. 6501 del 31 marzo 2015, a testimonianza dell’assenza di certezza del diritto nella tematica in commento. Per i giudici di legittimità “Le relazioni affettive e familiari – la cui centrale importanza è invocata dalla ricorrente Agenzia al fine della residenza fiscale – non hanno una rilevanza prioritaria ai fini probatori della residenza fiscale, venendo in rilievo solo unitamente ad altri probanti criteri – idoneamente presi in considerazione nel caso in esame – che univocamente attestino il luogo col quale il soggetto ha il più stretto collegamento (Cass. n. 24246/2011 cit.; Cass. 7 novembre 2001 n. 13803)”.

Pur senza incorrere nell’errore di ritenere tutti i trasferimenti come elusivi, occorre rilevare come la verifica della residenza fiscale in Italia sia permeata di un elevato grado di soggettività da parte dell’interprete, e prova ne sono le numerose e contrastanti decisioni della Corte di Cassazione chiamata a decidere su fattispecie analoghe. Il quadro di riferimento è ulteriormente complicato dal fatto che tale verifica non possa essere effettuata in sede di interpello, ma unicamente in sede di un eventuale accertamento.

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