Ai sensi dell’art. 2407 c.c. i membri del collegio sindacale (con o senza funzione di revisione legale) sono civilmente “responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”. Oltre che solidale, la responsabilità dei membri del collegio sindacale risulta “illimitata” nel senso che, a ciascun membro dell’organo di controllo, la società ed i creditori in genere, attraverso il curatore fallimentare, possono richiedere l’intero danno cumulativamente addebitabile agli organi di gestione e di controllo. Il principio della responsabilità illimitata e solidale, essendo previsto dalla legge, è pacificamente accolto anche della giurisprudenza, il che ha indotto anche recentemente la Cassazione (Cass. 14.12.2015 n. 25178, commentata in SCBR n. 2/2016) a ritenere “che l’azione di responsabilità non va necessariamente promossa nei confronti di tutti gli amministratori e sindaci, ma può essere proposta contro uno solo od alcuni di essi, (nel caso di specie fu chiamato a rispondere un solo sindaco per tutti i componenti del collegio e del CdA) senza che insorga l’esigenza di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri, in considerazione dell’autonomia e scindibilità dei rapporti con ciascuno dei coobbligati in solido”. A ciò va aggiunta la possibilità (spesso teorica per chi è chiamato a rispondere in prima istanza) di attivare l’azione di regresso nei confronti degli altri componenti dell’organo amministrativo e di controllo. Tale principio vale anche nei casi in cui i sindaci svolgano funzioni di revisione legale, (situazione che connota circa il 75% delle società di capitali italiane). Quando incaricati di tale funzione, spesso ai sindaci-revisori viene imputato di non aver opportunamente evidenziato irregolarità di bilancio, con particolare riferimento alle perdite di fatto già prodottesi ma non risultanti, per tempo, nei bilanci approvati (Cass. 29/10/2013 n. 24363; Cass. 11/11/2010 n. 22911; Trib. Milano 3/2/2010).
Il principio della responsabilità illimitata è peraltro giustificato nella stessa relazione di accompagnamento al d.lgs n. 6/2003, nella quale si legge che “un sistema di responsabilità per colpa (…) può operare efficacemente solo con un sistema di responsabilità illimitata: consentire infatti una responsabilità limitata, facilmente assicurabile con premi modesti, renderebbe gli amministratori, i sindaci ed i revisori sostanzialmente irresponsabili e, quindi, privi di ogni tensione per porre in essere comportamenti diligenti, rispettosi della legge e senza conflitti di interesse”.
Tali posizioni non possono essere condivise.
In primo luogo, perché tutte le polizze di responsabilità civile comprendono uno scoperto di almeno il 10% (peraltro non riassicurabile), con accollo diretto in capo al sindaco di una quota tutt’altro che trascurabile di danno (in pratica se ad esso venisse riconosciuto l’addebito di un danno di 1.000.000 di euro ben 100.000 euro resterebbero a carico del professionista).
In secondo luogo, perchè in Europa ormai sono molteplici gli Stati che consentono di limitare la responsabilità al revisore attraverso un massimale, seppur con sensibili differenze da un Paese all’altro. In alcuni c’è un massimale fisso; in altri un massimale rotativo in relazione al settore di intervento ed alla capitalizzazione della società; in altri ancora il quantum debeatur è parametrato ai compensi del revisore.
In particolare in Austria, Belgio, Germania, Grecia e Slovenia, il revisore è responsabile nei confronti della società controllata solo entro un determinato ammontare. Nel Regno Unito, di contro, i revisori possono disciplinare contrattualmente con la società controllata (previo assenso dei relativi azionisti) l’importo massimo del risarcimento già all’atto del contratto con cui ci si impegna a svolgere l’attività di revisione.
Alla luce di quanto sopra, la posizione del nostro legislatore, dunque, appare sempre più difficile da comprendere. In un’azione della curatela intentata contro amministratori e sindaci, infatti, si potrebbe decidere (legittimamente) di chiedere il danno esclusivamente ad un membro del collegio sindacale (spesso uno dei meno colpevoli), tenendo indenne chi ha concretamente compiuto gli atti di mala gestio, causando, peraltro, allo stesso sindaco rilevanti problemi assicurativi. Tali problemi sono legati alla circostanza che le polizze assicurative di ultima generazione, a copertura dei danni imputati al collegio sindacale, contengono in genere la seguente clausola: “Nel caso di responsabilità concorrente o solidale con altri soggetti non assicurati, l’assicurazione opera esclusivamente per la quota di danno direttamente imputabile all’assicurato in ragione della gravità della propria colpa, mentre è escluso dalla garanzia l’obbligo di risarcimento derivante dal mero vincolo di solidarietà”. Tale previsione contrattuale può risultare estremamente problematica per il sindaco, in quanto, se il giudice adito accollasse al membro del collegio anche le quote di danno imputabili agli altri componenti del Collegio e del board, in forza della solidarietà passiva di cui all’art. 2407 co. 2 c.c. la copertura sarebbe, in questo caso, limitata alla quota di responsabilità addebitabile al sindaco. Un esempio può chiarire meglio l’assunto. A fronte di un danno complessivo addebitale a CdA e collegio di euro 6.000.000, integralmente richiesto ad un solo membro del collegio sindacale, da suddividere fra tre amministratori e tre sindaci, la polizza, a fronte della clausola dianzi menzionata, potrebbe coprire fino a 1.000.000 euro, mentre il sindaco dovrebbe pagare in proprio il resto.
Fortunatamente la giurisprudenza, nell’ambito dell’addebito dei danni, sta cambiando orientamento.
Dopo un’apertura in tal senso della Cassazione (Cass. 22.11.2010 n. 23581), anche il Tribunale di Milano (Trib. Milano 25.9.2015 n. 10759) ha recentemente ritenuto, nell’ambito di un’azione di responsabilità su amministratori e sindaci, di suddividere la quota di risarcimento richiedibile a questi in relazione all’apporto causale dei singoli alla causazione del danno.
Non c’è dubbio, tuttavia, che questioni di tale rilevanza non dovrebbero essere demandate solo alla competenza di giudici illuminati ma ad una specifica disposizione di legge. Ciò consentirebbe ai sindaci e revisori di lavorare, si badi, non con maggior negligenza o superficialità, ma sulla base di una relativa tranquillità, a cui, ad avviso di chi scrive, ogni professionista ha diritto. Purtroppo, nel recepimento della direttiva 2014/56/Ue non sussiste alcuna modifica dell’art. 15 del d.lgs. 39/2010 e ciò rappresenta sicuramente un’occasione mancata.

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