La riforma del Terzo Settore può essere uno strumento che dà al no profit italiano quella spinta necessaria per riprendere la crescita che lo ha caratterizzato negli anni scorsi e che la crisi ha solo rallentato. Il Paese ne ha bisogno, perché è da qui, da questo mondo eterogeneo e vitale, che arrivano tante risposte ai crescenti bisogni sociali ed alla necessità di prendersi cura dei beni comuni. Ma l’efficacia della riforma (L. 6 giugno 2016, n. 106, Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale, entrata in vigore il 3 luglio scorso) dipende in gran parte dai decreti attuativi, che dovranno essere approvati nei prossimi mesi.
È in questa prospettiva che il CNDCEC – grazie al supporto della Commissione No Profit e dei gruppi territoriali – ha avviato un lavoro di consultazione ed approfondimento che è sfociato nel documento, inviato al Governo, “Osservazioni del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili per la Predisposizione dei Decreti Attuativi della Riforma del Terzo Settore”. Le proposte avanzate sono, quindi, il frutto di un ampio confronto tra professionisti, che da anni con il loro lavoro sostengono e concorrono a qualificare il Terzo settore e che hanno guardato al futuro, pur partendo dall’esistente. Peraltro, è opportuno ricordare che il Consiglio nazionale si è già mostrato pro-attivo nei confronti del legislatore, partecipando ad audizioni e fornendo, in più occasioni, commenti ed osservazioni in parte recepiti. Anche per tale motivo, il Consiglio, visto l’interessamento che gli iscritti all’Albo mostrano per la materia, ha interesse affinché la riforma si concretizzi, in modo da garantire un ulteriore sviluppo delle realtà coinvolte nel perseguimento delle proprie missioni ideali.
Al primo posto, tra le priorità su cui i decreti dovrebbero convergere, c’è la trasparenza. «Oggi», afferma il consigliere nazionale dei commercialisti delegato al Terzo settore, Sandro Santi, «trasgredire a questo imperativo, che è prima etico che legislativo, è facile, ma, ogni volta che scoppia uno scandalo, il discredito ricade su tutto il settore». All’interno di questa cornice si collocano le altre priorità: «Attendibilità dei dati e delle informazioni, formulazione di norme atte a creare strutture adeguate e funzionali al perseguimento della missione, certezza del diritto, determinazione di norme tributarie eque». La speranza è che il cosiddetto Codice del Terzo settore riesca a sostanziare questi concetti-obiettivo e ad indicare gli strumenti adeguati per garantire uno sviluppo del movimento ed un adeguato funzionamento degli enti no profit (ENP).
«Le proposte del Consiglio – spiega Santi – sono orientate alla definizione di principi generali, da cui discendono norme di carattere generale che, se opportuno, dovrebbero essere declinate in misura modulare per salvaguardare anche l’economicità dell’attività intrapresa ed avere un trade-off positivo tra benefici derivanti dall’azione promossa ed oneri amministrativi».
Amministrazione e controllo
Il documento del CNDCEC afferma la necessità di distinguere tra amministrazione, organizzazione e controllo, anche se è evidente che «gli aspetti di amministrazione e controllo sono intimamente e concettualmente inscindibili e devono essere, per questo, esaminati in modo congiunto». La definizione di un corretto sistema di amministrazione e controllo è alla base stessa dell’appropriata definizione di istituti economici. «L’importanza data al tema del controllo», prosegue Santi, «non nasce da sfiducia nei confronti degli ENP, ma dal già sottolineato obiettivo di restituire agli stessi la dignità che meritano”.
Le disposizioni attuali, in materia di amministrazione, sono insufficienti; ma nel definirle è necessario tenere conto del fatto che le peculiarità, le strutture e le dimensioni associative, all’interno del Terzo settore, sono molto diversificate. Per questo, il CNDCEC ha adottato una distinzione tra enti grandi e piccoli, classificando tra questi ultimi quelli che non superano i 50mila euro di componenti positivi di reddito o di entrate.
In generale, comunque, la proposta del Consiglio nazionale è che l’organo di controllo sia collegiale e non monocratico, visto che le esperienze monocratiche, preferite perché apparentemente più flessibili e meno gravose per gli ENP, spesso non hanno dato risultati positivi. La figura del “controllore”, in realtà, garantendo gli stakeholders sull’attività svolta, dovrebbe assumere, sempre nel rispetto dei ruoli, più una funzione di supporto all’ente. Spesso gli accertamenti, per esempio, evidenziano irregolarità nella gestione dell’ente, non dovute a volontà di infrangere le disposizioni normative, bensì alla mancanza di conoscenze tecniche.
Organismo di vigilanza
Nella stesura dei decreti, inoltre, non si possono dimenticare le indicazioni della Delibera dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (n. 32 del 20 gennaio 2016) con le “Linee guida per l’affidamento di servizi ad enti del Terzo settore ed alle cooperative sociali”, che chiedono alle organizzazioni – in base anche a quanto previsto dal d.lgs. 231/2001- di adottare un modello di organizzazione e gestione rivolto alla prevenzione dei reati e, soprattutto, la nomina di un organismo di vigilanza. Il documento propone di confermare l’attuale modello previsto dalla norma primaria, rinviando alle organizzazioni il compito di valutare internamente il rischio (risk assesment) ed identificare, sulla base delle proprie considerazioni, la necessità di adottare il modello e nominare l’organismo di vigilanza.
Rendicontazione finanziaria
Sul tema della rendicontazione finanziaria la premessa è che, come ribadito più volte e come si legge nel documento, gli ENP hanno «un obbligo morale, prima ancora che normativo, nel rendere conto dell’attività svolta con le risorse messe a disposizione». È in fondo per questo che ogni ente dovrebbe investire in strumenti adeguati per costruire un sistema informativo-contabile che possa essere realmente «un elemento di garanzia per tutti gli stakeholder», mostrando come le risorse fornite vengano utilizzate e quanto correttamente siano gestite. Una rendicontazione trasparente e completa potrebbe tra l’altro rappresentare un importante strumento di pianificazione, oltre che di controllo.
Se questo è il principio, ne sono naturale conseguenza sia la necessità di pubblicare il bilancio (che dovrebbe essere obbligatorio almeno per gli enti di grandi dimensioni) sia quella di depositarlo, insieme alle altre informazioni importanti sulle attività dell’ente. Atti, questi, richiesti dall’istituzione del Registro unico presso il Ministero delle Politiche Sociali, prevista dalla Riforma.
Il Registro unico permetterà a chi è iscritto di accedere a contributi, donazioni, convenzioni, strumenti come il 5 per mille e così via. Il consigliere Sandro Santi conferma che la tenuta del Registro rappresenta anche un’occasione di ottimizzazione delle risorse, poiché questo, «se correttamente gestito, potrebbe portare ad una serie di semplificazioni burocratiche, come per esempio il riconoscimento della personalità giuridica o l’abolizione di pratiche (ad es. comunicazioni EAS od adempimenti presso le Prefetture). Infine, il Registro, se non sarà ridotto ad una semplice anagrafe, contribuirà alla trasparenza del sistema perché raccoglierà e renderà consultabili per chiunque le informazioni necessarie per comprendere l’attività ed il modo di operare dell’ente». In un secondo momento, si potrebbe pensare a norme uniformi per la rendicontazione: in questa prospettiva sarebbe utile avviare da subito un tavolo tecnico.
Rendicontazione non finanziaria
Fa parte del dovere di trasparenza anche la rendicontazione sociale. Questo implica la valutazione dell’impatto sociale delle attività e dei progetti, che dovrebbe essere fatta con metodi che rendano comparabili i risultati raggiunti dai diversi enti, pur tenendo conto delle peculiarità dei vari settori, e che dovrebbe essere doverosa, soprattutto per quelli di maggiori dimensioni. La legge delega prevede la predisposizione di “Linee guida in materia di bilancio sociale e di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore”.
Il CNDCEC si rende disponibile a contribuire alla loro realizzazione, così come alle linee guida sul bilancio economico, vista l’ampia esperienza accumulata ed avendo già elaborato proposte in questo senso.
Operazioni straordinarie
Per quel che riguarda le operazioni straordinarie, la riforma cita le operazioni di trasformazione e fusione ma non le scissioni degli ENP.
È importante invece normare anche queste, chiarendo se verrà fatto attraverso la revisione della disciplina del titolo II del Libro primo del Codice civile, prevista nell’art. 1 oppure, per chi svolge in prevalenza attività di impresa, attraverso l’applicazione di quanto previsto dal Libro quinto dello stesso Codice civile.
Fiscalità
Non vi è dubbio che la fiscalità sia una tematica sensibile per il buon completamento della riforma e, soprattutto, per il futuro del settore. Il tema della fiscalità ruota attorno all’obiettivo di riconciliare le posizioni civilistiche e fiscali.
Il primo argomento su cui si focalizza il documento è la modalità di riconoscimento della qualifica fiscale di onlus: che cosa si intende per “attività atte a perseguire finalità di solidarietà sociale”? Accanto ad enti che si occupano di soggetti svantaggiati, per i quali la finalità solidaristica è evidente, ve ne sono altri cui la definizione è più difficilmente applicabile, anche se producono benefici fondamentali per la collettività (ad es. la tutela e la valorizzazione del patrimonio artistico o naturale). Serve quindi un’interpretazione estensiva che valorizzi le diverse esperienze.
Un secondo argomento riguarda i concetti di attività “connesse” ed “accessorie”. Attualmente, dal punto vista normativo, il riconoscimento della natura non commerciale dell’ente si basa sull’attività svolta (oggettivamente commerciale o meno), mentre la norma sarebbe di più facile applicazione se si basasse sulla finalità non lucrativa dell’ente stesso, riconoscendo poi «differenti e crescenti livelli di merito di tutela in ragione delle finalità di solidarietà sociale e delle attività di interesse generale perseguite (art. 4 lett. c), oltre che dell’impatto sociale effettivamente realizzato (art. 9, lett. a)».
Vi è, infine, la necessità di arrivare a definire un sistema di regole contabili chiare ed omogenee: su questo, il documento contiene una miscellanea di proposte.
Procedure di crisi ed insolvenza
Le situazioni di crisi degli ENP dovrebbero essere gestite non solo in base alle norme del Codice civile (titoli V e VI), ma anche in base allo statuto dell’imprenditore commerciale, visto che tali enti possono svolgere anche attività commerciali, purché non prevalenti. Secondo il documento, se l’attività commerciale non è marginale ed accessoria, si dovrebbero applicare procedure come concordato preventivo, fallimento ed accordo di ristrutturazione. Se invece prevale l’attività solidaristica, si potrebbero applicare le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento previste dalla legge n. 3 del 27 gennaio 2012.
Impresa sociale
Uno degli obiettivi dichiarati della riforma è lo sviluppo dell’impresa sociale. «L’obiettivo della riforma dovrebbe anche consistere», secondo Santi, «nell’agevolare lo sviluppo dell’economia sociale, presente massicciamente in molti contesti internazionali ed ancora in fase di evoluzione in Italia. L’attività economica nel Terzo settore non deve essere demonizzata bensì regolamentata in modo adeguato, al fine di premiare quelle attività che contestualmente svolgono il proprio lavoro in settori di utilità sociali e non hanno scopo di lucro”.
Ad oggi, l’istituto dell’impresa sociale di cui al d.lgs. 155/2006, che pure avrebbe potuto essere un volano di sviluppo dell’economia sociale, non è mai decollato perché la legge non prevedeva significativi vantaggi fiscali o facilitazioni di altro genere. Va bene ora sostenerne la crescita, ma in un contesto di chiarezza.
Il Consiglio nazionale, anzitutto, propone che – per evitare ambiguità – si preveda «in maniera puntuale l’impossibilità, per tutti gli enti che acquisiscono la qualifica di onlus oppure per quelli considerati onlus “di diritto”, di acquisire altresì la qualifica di impresa sociale (fatta salva la norma di favore prevista anche dalla legge delega per le cooperative sociali)».
In questo contesto, è opportuno anche definire che cosa si intenda per attività economiche di natura commerciale, artigianale od agricola svolte in maniera ausiliaria e sussidiaria, raccordando il tutto con la normativa civilistica; aggiornare i settori previsti per le imprese sociali (oggi, ad esempio, non è previsto lo sport di cittadinanza, il cui valore sociale è universalmente riconosciuto) e ridefinire cosa si intende per “attività culturali” per le imprese culturali; prevedere un unico regime fiscale di premialità (decommercializzazione delle entrate, agevolazioni contributive per i rapporti di lavoro e così via) e, infine, prevedere corsie preferenziali per l’accesso a diversi strumenti di finanziamento dei beni e servizi, come la partecipazione a bandi, gare ed appalti emessi dalla Pubblica Amministrazione.
Il documento chiede anche che gli Ordini professionali vengano consultati per la definizione delle norme transitorie, necessarie per permettere agli enti di affrontare cambiamenti così profondi.
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