Recentemente, in occasione del forum delle famiglie, sono emersi alcuni dati sulla distribuzione del carico fiscale, contenuti in uno studio della Fondazione nazionale dei commercialisti, che hanno avuto ampio risalto mediatico. In particolare, le dinamiche dei consumi e del reddito disponibile lordo dei nuclei familiari, nel periodo successivo alla crisi fino ad oggi, evidenziano rispettivamente un -6% ed un -8,8%. Peraltro, già nel periodo 1990–2006, secondo un’analisi apparsa nel 2008 allo scoppio della crisi su www.noisefromamerika.org, veniva evidenziata una diminuzione della percentuale del reddito disponibile procapite di circa dieci punti percentuali, rilevandosi come, a fronte di una dinamica – in quell’arco temporale – dei consumi privati simile alla dinamica del reddito disponibile lordo, il reddito disponibile netto era cresciuto significativamente in misura meno che proporzionale. Ciò, indiscutibilmente, era dovuto anche all’impatto della fiscalità crescente in quel periodo (e non solo). Occorre poi considerare che (secondo una stima Confcommercio, nda) il confronto del dato dell’incidenza della pressione tributaria complessiva sul PIL tra Italia e Germania evidenzia un “gap”, in negativo per noi, di circa 4 punti percentuali (rectius, stando ai dati ufficiali, 43,6% contro 39,5%), pari a circa 66 miliardi di euro “sottratti” all’economia reale.
Nei vari dati da analizzare, un tema delicato e quanto mai attuale è anche la dinamica del risparmio e della tassazione a questo collegata. Il peso complessivo della fiscalità sulle rendite finanziarie è stimabile in circa 15,1 miliardi di euro, contro i 14,9 del 2014 ed i 6,9 del 2006 (dati centro studi impresa lavoro, nda), a fronte di rendimenti netti in calo. L’intervenuto incremento delle aliquote ed il perdurare attuale dei tassi lordi (molto) bassi sono – di tutta evidenza – la spiegazione del fenomeno in sé. Ma non basta limitare l’analisi a questo profilo; va considerata anche l’ulteriore incidenza delle imposte patrimoniali (rectius, per bollo, sui conti correnti e dossier titoli e per Ivafe) – che ammonta a circa 4,7 miliardi annui – che ha un effetto di anelasticità sul PIL ed una dinamica inversamente proporzionale a quella dei rendimenti finanziari (cioè è crescente al loro diminuire).
Diminuzione delle risorse disponibili per consumi e risparmio, per effetto della crisi ma anche per effetto della dinamica fiscale, dunque.
Sulle imprese, poi, come è noto, il range dell’incidenza fiscale sugli utili (ad es. di una società di capitali) varia in una forchetta ampissima che, approssimativamente, può aggirarsi, salvo eccezioni legate a partecipazioni estere, tra un minimo intorno al 30% (aziende ad alta redditività che sfruttano l’effetto premiale Irap sulla leva finanziaria positiva e le agevolazioni dell’ACE) ad un massimo intorno al 65% (per le aziende cd. “sane”) e anche di più (per quelle “meno” solide, poiché al diminuire della redditività cresce l’incidenza della componente Irap), fino anche a casi con incidenza superiore agli utili lordi di bilancio. Il nostro (complicatissimo) sistema fiscale, infatti, incide diversamente al variare di alcune decisioni strategiche – di struttura finanziaria, degli investimenti e dei costi – che le aziende (ed i loro professionisti) sono chiamate a prendere. Così, in sintesi, e prescindendo per mere ragioni di spazio dalla spiegazione tecnica di ciascun singolo elemento (peraltro facilmente già conosciuti da chi quotidianamente opera sul campo), oggi sono fiscalmente favoriti i settori alto marginanti e capital intensive e le aziende, anche degli altri settori, con leva finanziaria operativa positiva (ROI > ROD), patrimonializzate recentemente e con bassa incidenza di costi indeducibili, mentre sono penalizzati i settori basso marginanti e, in parte, labour intensive nonché le imprese ad alto indebitamento e basso autofinanziamento e quelle in crisi o in fase di risanamento.
Da tutte queste osservazioni nascono tre riflessioni principali: (i) la scarsa competitività sistemica del nostro Paese risente anche (e forse soprattutto) della concausa di una fiscalità complessa e (probabilmente) maldistribuita; (ii) la necessità, per reagire a ciò e per creare valore, di coniugare con maggiore razionalità le scelte strategiche imprenditoriali con una conoscenza delle regole fiscali che consenta ex ante di poter pianificare meglio le scelte stesse; (iii) l’impatto del sommerso sull’economia.
Su tale ultimo tema, peraltro, occorre dire che l’incidenza del sommerso (inteso in senso tecnico come economia irregolare ed evasione vera e propria, non come economia criminale) determina, da un lato, un effetto di distribuzione asimmetrica del già alto carico tributario tra contribuenti compliant e contribuenti che non lo sono, così da generare – al di là di ogni altro possibile giudizio – un effetto di vera e propria “concorrenza sleale”. Inoltre, sotto un profilo “aziendalistico”, occorre considerare che la “sottrazione” di imponibile nelle imprese, essendo generalmente derivante da ricavi “non dichiarati” o da costi “non inerenti”, corrisponde a “sottrazione” di flussi di cassa e, quindi, a minor valore misurabile (sia per l’accesso al credito che per il prezzo di potenziali compravendite). La circostanza, infine, che la propensione al sommerso sia derivante dalla (sola) alta tassazione, non trova evidenze empiriche statistiche confrontando i dati a livello europeo (Heritage Foundation, per i livelli di pressione tributaria; Johanns Kepler University Linz, per il sommerso), suggerendo invece che, al di là anche di questioni legate alla singola evoluzione storica ed al ciclo economico attraversato da ciascun Paese analizzato, sia più correlata alla ripartizione fra imposte patrimoniali (più elevate e meno eludibili) e reddituali (più basse) nei paesi più virtuosi.
Quali conclusioni trarre, quindi? Un’economia competitiva, ancor più in una fase di (timidi) segnali di uscita dalla crisi, meriterebbe di avere una fiscalità mirata alla crescita ed allo sviluppo del proprio sistema, inteso sia come sistema imprenditoriale (e quindi lavoro) che di risparmio (finanza) e consumi (famiglie). In tale ambito, la nostra Professione ha tutte le carte in regola per rendersi partecipe di un cambiamento che migliori la situazione esistente, proponendo analisi e soluzioni tecniche (non politiche) utili allo scopo. Nel frattempo, le singole imprese e le famiglie hanno bisogno di una Professione competente, preparata e capace di consigliare per il meglio le proprie scelte; tutti dovremmo impegnarci affinché ciò avvenga sempre di più e, peraltro, solo così potremo arrivare a recuperare maggior credibilità presso l’opinione pubblica e la politica.
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