L’art. 5, comma 2, dello schema di decreto legislativo recante misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese (atto del Governo n. 161), emanato in attuazione dell’art. 12 delle legge delega n. 23/2014 ed avente natura interpretativa (e, quindi, immediatamente operante), ha stabilito che le norme sulla tassazione, ai fini delle imposte sui redditi e dell’Irap, delle plusvalenze riguardanti le cessioni di immobili e aziende, ovvero la costituzione ed il trasferimento di diritti reali ad essi relativi, si interpretano nel senso che l’esistenza di un maggior corrispettivo (derivante dalla vendita dei beni) non è presumibile soltanto sulla base del valore dichiarato o accertato ai fini dell’imposta di registro o di quella ipotecaria e catastale.

La norma, senz’altro opportuna, ha posto rimedio ad un insidioso e consolidato orientamento della Corte di Cassazione che, con riguardo alla cessione di azienda, ha ritenuto legittima la rettifica delle relative plusvalenze sulla base del valore (dell’azienda) definito ai fini dell’imposta di registro, ponendo a carico del contribuente l’onere della prova contraria e attribuendo efficacia vincolante – per l’Amministrazione finanziaria – al valore dell’avviamento resosi definitivo ai fini del registro (si vedano, tra le più recenti, Cass. 21 febbraio 2007, n. 4057; Cass. 18 luglio 2008, n. 19830; Cass. 11 novembre 2011, n. 23608; Cass. 30 agosto 2013, n. 20013; Cass. 27 settembre 2013, n. 22143). Addirittura, in una pronuncia (cfr. Cass., ord. 28 giugno 2013, n. 16334), la Suprema Corte ha valorizzato tale assunto dal lato dell’acquirente, per quantificare la spesa dei suoi incrementi patrimoniali in relazione all’accertamento sintetico disciplinato dal previgente art. 38, comma 5, del DPR n. 600/1973.

E’ appena il caso di sottolineare, in proposito, che i presupposti per la tassazione ai fini delle imposte sui redditi (e dell’Irap) e dell’imposta di registro sono profondamente diversi. Per quest’ultima, difatti, occorre fare riferimento, ai sensi dell’art. 51 del DPR n. 131/1986, al valore venale in comune commercio, ossia al prezzo che, in normali condizioni di mercato, il cessionario sarebbe disposto a pagare per l’acquisto dell’azienda. Il quarto comma della citata disposizione, inoltre, stabilisce che il valore su cui è applicata l’imposta di registro è controllato dall’Ufficio con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono il complesso aziendale, compreso l’avviamento, al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa. Ecco che, il valore dell’azienda così definito, può sensibilmente divergere dal corrispettivo, unico elemento che rileva per la determinazione della relativa plusvalenza tassabile ai fini delle imposte sui redditi (e dell’Irap). Ciò anche in quanto i prezzi praticati tra imprenditori nell’esercizio della loro autonomia negoziale difficilmente coincidono con il valore di mercato astrattamente inteso, essendo evidentemente condizionati dal contesto negoziale di riferimento. Senza considerare che il valore in comune commercio del complesso aziendale, determinato ai fini dell’imposta di registro, comprende la determinazione dell’avviamento secondo astratte regole matematiche che tengono conto della redditività aziendale, ma non delle specifiche caratteristiche dell’azienda note, invece, alle parti contraenti.

Peraltro la Cassazione (cfr., tra le più recenti, le sentenze 12 novembre 2014, n. 24054; 2 luglio 2014, n. 15052; 13 gennaio 2014, n. 457; 9 gennaio 2014, n. 245), ed anche l’Agenzia delle Entrate (nella circolare n. 18/E del 18 aprile 2010), con riguardo alla rettifica dei corrispettivi delle cessioni degli immobili hanno affermato l’insufficienza dell’unico elemento presuntivo consistente nello scostamento dai valori determinati dall’Osservatorio del mercato immobiliare (cd. OMI), con ciò anticipando il principio, attualmente codificato dalla disposizione in commento, per cui l’accertamento di un maggior corrispettivo ai fini delle imposte sui redditi (e dell’Irap) non può essere fondato su un unico elemento indiziario.
E’ tuttavia auspicabile, onde evitare irrazionali disparità di trattamento, che la novella normativa venga espressamente estesa alle cessioni riguardanti immobili costituenti “beni merce”.

Sotto altro profilo, appare opportuno sottolineare l’ulteriore apprezzabile previsione normativa contenuta nello schema di decreto legislativo sulla crescita e l’internazionalizzazione delle imprese – in particolare all’art. 4, comma 2 – in tema di deducibilità dal reddito d’impresa degli interessi passivi relativi all’emissione di titoli obbligazionari. E’ stabilita, infatti, l’abrogazione dell’art. 3, comma 115, della legge n. 549/1995, che, come noto, prevede una regola di indeducibilità specifica in base alla quale le società ed enti, diverse dalle banche e dalle società di progetto, con capitale rappresentato da azioni non negoziate in mercati regolamentati degli Stati UE o aderenti allo Spazio Economico Europeo inclusi nella “white list” (in altri termini le società “non quotate”) possono dedurre gli interessi derivanti dall’emissione di un prestito obbligazionario soltanto se, al momento dell’emissione, il tasso di rendimento effettivo non sia superiore: al doppio del tasso ufficiale di riferimento, per le obbligazioni negoziate in mercati regolamentati degli Stati UE o degli Stati “white list” aderenti allo Spazio Economico Europeo; al tasso ufficiale di riferimento aumentato di due terzi, per le obbligazioni diverse dalle precedenti.

Ove approvata, la novella normativa consentirebbe quindi di rimuovere i suddetti vincoli – nati, con finalità antielusive, in un contesto economico e giuridico del tutto differente da quello attuale – che fino ad oggi hanno limitato la deducibilità degli interessi passivi per le società emittenti prestiti obbligazionari, incentivando così il ricorso a forme di credito alternative a quello bancario.

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