Per quanto ne abbiamo letto nelle analisi e nei contributi interpretativi al nuovo testo legislativo, il D. Lgs. N 23 del 2015, parrebbe evidente quanto lo stesso possa limitare la discrezionalità del giudice nel disporre il licenziamento. Oggi, a differenza del passato, la sussistenza del fatto materiale rende fondato il provvedimento confinando la valutazione giuridica alla sfera risarcitoria. Licenziamenti che si pongono in contrasto con l’ordinamento non per il motivo che li determina, ma per l’insussistenza o inidoneità del fatto, addotto come motivo, a giustificare il licenziamento.
E’ veramente facile licenziare dopo il decreto delle tutele crescenti?

L’esclusione della reintegra nel posto di lavoro per i licenziamenti sia di natura economica, Giustificato Motivo Oggettivo, che di natura disciplinare, per Giusta Causa e Giustificato Motivo Soggettivo, è sempre tale, il giudizio, nel caso di una insussistenza del fatto materiale?
Le novità più rilevanti e il vero cuore della riforma nel d. Lgs. 23/2015 riguardano il licenziamento per Giusta causa e Giustificato motivo soggettivo (c.d. disciplinare) e per Giustificato motivo oggettivo (c.d. economico) che hanno limitato fortemente il diritto del lavoratore alla reintegrazione in caso di illegittimità del recesso a scapito di una nuova tutela indennitaria prevista dall’articolo 3 comma 1 del decreto in esame, disciplina le cosiddette “tutele crescenti”.

Il successivo comma 2 circoscrive e stabilisce che “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, il datore di lavoro è condannato alla reintegra dello stesso nel posto di lavoro.
Per il licenziamento disciplinare nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori previgente la Legge n. 92 del 2012, in caso di annullamento il giudice ne disponeva sempre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

La Legge n. 92 del 2012, modificando l’art. 18 ha cercato di limitare la tutela reale, stabilendo il diritto del lavoratore ad essere reintegrato vi è solo in caso di “insussistenza del fatto contestato”, ovvero “perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ossia dei codici disciplinari applicabili”.
Di per sé i propositi della Fornero hanno creato notevoli dubbi applicativi per le differenti interpretazioni giurisprudenziali sulla nozione di fatto contestato lasciando ancora ampia discrezionalità ai giudici.

Il testo del decreto n. 23 rappresenta innegabilmente la conclusione del percorso iniziato proprio con la Riforma Fornero che aveva già tentato di delimitare il confine tra reintegrazione e indennità in materia di licenziamento disciplinare. Il primo comma dell’art. 3 del decreto regola la tutela obbligatoria, prevedendo che nei casi in cui risulta accertato che non ricorrano gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o per giusta causa, il giudice dichiara:
“estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.
Mentre per i licenziamenti disciplinari, nulli o discriminatori ai sensi anche del precedente art. 2 dello stesso decreto 23, si parla di tutela reale, di reintegra, l’articolo 3 comma 2, ne riprende la tutela prevedendo ciò, esclusivamente nel caso in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, eliminando quindi la discrezionalità del giudice rispetto all’insussistenza del fatto giuridico.

Affinché il datore di lavoro possa addebitare il fatto materiale contestato al lavoratore, dovrà produrre giusta lettera di contestazione. Dovrà limitarsi a indicare esclusivamente fatti oggettivi che possono essere direttamente provati in giudizio, evitando situazioni irreali. Non più una pluralità di infrazioni, con margini di incertezza, ma fatti oggettivamente esistenti.
Ma il licenziamento è sempre legittimo quando si tratta di un fatto materiale, anche se giuridicamente non c’è proporzionalità tra il provvedimento espulsivo e il comportamento addebitato?
Il giudice, quindi, se manca il fatto materiale, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro?

La Cassazione Civile, sez. lavoro, con le sentenze n. 20540 e n. 20545, entrambe del 13/10/2015, nel decidere su licenziamenti rientranti nel rito Fornero, Legge n. 92 del 28/06/2012, ha paventato un potenziale rischio interpretativo della disciplina per quanto riportato nel D. Lgs. N. 23, seppur i giudici, ad oggi, non si sono ancora pronunciati nello specifico sul licenziamento attuato in base alle “tutele crescenti”, in vigore per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015.

Mentre per la legge Fornero in caso d’insussistenza del fatto contestato o di manifesta insussistenza del fatto che ne ha determinato il licenziamento, la reintegra ex art. 18 della L. 300/1970 ne rappresenta il regime sanzionatorio, per il decreto 23/2015 la reintegrazione è ammessa per l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.
Sia per la Fornero, sia per il decreto tutele crescenti, il problema comune è quello della sussistenza o insussistenza del fatto, materiale o no.

La discrezionalità del giudice è limitata dalla presenza del fatto materiale, seppur banale o minimo, senza possibilità di verifica della proporzione tra fatto sussistente e d’illiceità modesta, rispetto alla situazione di fuoriuscita.
La sentenza n. 20540 ha sottinteso che l’insussistenza materiale del fatto, se non è illecito, è inesistente.
Pertanto l’irrilevanza giuridica del fatto, materiale o non, per liceità o per modesta importanza, porta alla reintegrazione ex art. 18, certamente per quanto normato dalla Fornero con beneficio per quanto previsto nelle tutele crescenti.

Il messaggio della Cassazione, seppur non specifico alla tutela crescente, dovrebbe far riflettere sullo spirito di certezza del diritto e della semplificazione che caratterizza il Job Act, certamente l’analisi dei professionisti addetti ai lavori non deve certo farsi attrarre dalla facilità conclamata del licenziamento.

Alla giurisprudenza toccherà, soprattutto nella nuova disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, il compito di saggiare l’impatto delle nuove norme sul mondo del lavoro pubblicizzate in maniera non esauriente.

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